Stefano Aloe

Tommaseo e la Russia

La complessa ed intensa relazione di Niccolò Tommaseo con il mondo slavo è argomento tra i più studiati dalla critica tommaseiana.[1] Naturalmente, un’ampia preminenza hanno i suoi legami con la Slavia meridionale, ed è altrettanto naturale che quelli con la Russia siano stati trattati molto di meno. In particolare, hanno richiamato l’attenzione degli storici del Risorgimento le frequenti invettive di Tommaseo contro l’Impero zarista e contro il panslavismo, e le sue riflessioni su cristianesimo ortodosso e cattolicesimo.[2] È stato invece tralasciato l’aspetto culturale e linguistico del suo interesse per la Russia, del resto dallo stesso Tommaseo subordinato alla sfera politica. Occorre subito dire che Tommaseo conosceva la cultura russa poco e male, non conosceva la lingua e mai si volle interessare alla letteratura o ad altre arti fiorenti in Russia. Aveva però delle convinzioni ben radicate sulla cultura e sulla lingua russa, convinzioni in buona parte infondate, ma legate alla sua visione complessiva del mondo slavo.

Il primo intervento del dalmata sull’argomento in questione è piuttosto noto: si tratta della breve lettera a Niccolò Giaxich sulla letteratura russa, pubblicata dalla «Antologia» nel 1828.[3] La lettera a Giaxich, antecedente alla rivalutazione da parte di Tommaseo della propria origine slavo-dalmata, si inserisce in un solco già tracciato nella pubblicistica europea: ci si pone il problema del ruolo che la letteratura russa, ultima arrivata nel consesso delle grandi letterature europee, andrà a svolgere (il futuro è un dato costante in simili riflessioni), e si esprimono in tal senso calorose speranze. L’impostazione, evidentemente, risale ad un ottimismo evoluzionista di marca illuministica. Non solo in Francia e nel Nord Europa, anche in Italia già nel ‘700 si era parlato di una cultura russa in fase di formazione e di un futuro sviluppo della letteratura in questo remoto paese.[4]

Nella prima metà dell’800 le speranze nei confronti della Russia si permeavano dell’esigenza che questa trovasse la forma di esprimere in letteratura e nella cultura il proprio specifico carattere nazionale. Tale esigenza, di matrice romantica, era avvertita non solo all’esterno; essa era dibattuta prima di tutto all’interno del mondo culturale russo dove, specialmente negli anni ’20, fioriscono proclami e si sollevano polemiche sul significato da dare al concetto di nazionalità russa (narodnost’) e alle forme per esprimerlo artisticamente. È anche il periodo di incubazione delle prime correnti filosofiche russe, quando comincia a porsi la questione del ruolo della cultura occidentale nello sviluppo di quella russa e viceversa: per esempio, secondo una visione che sarà sviluppata in particolare dagli slavofili, la giovane cultura russa assimila la vecchia cultura romano-germanica onde superarla e costituire una nuova tappa nel cammino della civiltà europea, idea che, del resto, risale a Herder.

Tommaseo si rifà dunque a suggestioni che erano nell’aria. Le sue fonti sembrano essere inequivocabilmente francesi: ne è un indizio, semmai ce ne fosse bisogno, la grafia con cui viene riportato l’unico nome di letterato russo citato nella lettera a Giaxich, Pouckine.[5] Tommaseo, che non ha letto né Puškin, né alcun altro scrittore russo, scrive non per conoscenza diretta, ma espressamente per sentito dire («Io godo in sentire che la letteratura russa non sia da questi importantissimi studii aliena...»). La sua lettera, pur essendo uno dei contributi più rilevanti alla conoscenza della letteratura russa in Italia in questa fase, offriva ai lettori della «Antologia» ben pochi spunti concreti, ed era imperniata su alcuni luoghi comuni: quello del «soverchio amore della lingua e della letteratura francese», ovvero della sudditanza culturale nei confronti di una cultura straniera; e quello, al primo connesso, della natura imitativa della cultura e del carattere russo, incapace perciò di trarre da se stesso la necessaria originalità. Interessante notare che almeno fino agli anni ’20 dell’800, ma in parte anche più in là, la cultura russa soffriva esattamente di questo complesso d’inferiorità nei confronti delle varie tradizioni europee. Nella pubblicistica russa dell’epoca ancora ricorre l’argomento della dipendenza culturale e letteraria dall’Occidente, in particolare dalla Francia e dalla Germania, e si deplora a più riprese l’imitazione di modelli stranieri.[6] Si è detto come uno degli argomenti cardine del romanticismo anche in Russia fosse la ricerca di una forma di espressione letteraria prettamente nazionale. È poi l’epoca di formazione della moderna lingua letteraria russa, punto di partenza della quale si considera tradizionalmente, e non a torto, l’opera di Puškin. Le opinioni abbozzate da Tommaseo trovavano dunque riscontro nelle idee che circolavano all’epoca, e non dimostrano particolare approfondimento personale delle tematiche. Anche il timore da lui espresso che il contatto con la civiltà europea corrompa il genuino spirito russo, dal quale ci si attende un “raggio vitale e fecondo”, riprende concetti già in vigore; che la cultura russa si avvicinasse ormai al livello europeo aveva scritto, per esempio, un lungo articolo per la «Antologia» Giuseppe Montani, nel 1826. Montani si basava su informazioni abbastanza dirette, anche se non freschissime, attinte al «Journal des Débats» e alla «Revue Encyclopédique».[7] Conosceva, inoltre, gli scritti del Denina, dell’Andrés e del Napione sulla letteratura russa settecentesca. D’altro canto, la speranza nell’azione rigeneratrice della novella cultura russa nei confronti di quella europea veniva espressa con entusiasmo dal colonnello abruzzese Gabriele Pepe, un altro assiduo collaboratore della «Antologia», da Tommaseo apprezzato.[8] Le vedute del Pepe nei confronti della Russia erano peraltro assai ottimistiche: nel 1827 paragonava l’espansione russa verso oriente al rinnovamento seguito alla scoperta dell’America, e indicava la guerra russo-persiana come la guerra «fra la civiltà e la barbarie, fra la gioventù ravvivatrice e la mortifera decrepitezza delle nazioni».[9] Anche nel 1830 Pepe ribadiva le proprie opinioni controcorrente, esaltando l’opera civilizzatrice di Pietro il Grande ed il ruolo della Russia sia ad Oriente che nel consesso europeo, dove «già le muse slave prendono seggio fralle sorelle europee».[10]

Tommaseo poteva dunque trovare informazioni utili non soltanto nella stampa d’Oltralpe, ma anche all’interno della stessa cerchia di Vieusseux; qui, oltre ai citati Montani e Pepe va ricordato il nome dell’erudito Sebastiano Ciampi, che era stato professore a Varsavia e si interessava costantemente di cose slave.[11] Di Ciampi Tommaseo recensì tra l’altro alcuni volumi di storia polacca e russa, ma senza interventi personali, né sul piano politico, né su quello culturale.[12] Allo stesso modo, nel 1829 recensì una Storia dell’Impero Russo, compilata dal cav. Compagnoni lodando l’interesse per la storia di questo paese, ma senza esprimere commento alcuno su di essa.[13] Solo nel 1831, ad eco degli eventi polacchi, la recensione di Tommaseo ad un Viaggio in Polonia del Prof. Seb. Ciampi nella state del 1830...[14] si fa velatamente partecipe: centro della relazione è infatti l’incontro di Ciampi con il principe Adam Czartoryski, di lì a poco animatore della rivolta, del quale vengono messe in luce le grandi qualità umane. Dalle brevi note al viaggio di ritorno di Ciampi trapela anche un incipiente specifico interesse di Tommaseo per il mondo slavo.

Nonostante la superficialità di un’analisi “di seconda mano”, parte delle asserzioni contenute nella lettera a Giaxich andranno a formare le convinzioni di Tommaseo sulla natura della cultura russa. Ma del tono genericamente speranzoso e favorevole non rimarrà più traccia non appena lo scrittore avrà sviluppato il proprio pensiero politico. A tener fede a quanto egli afferma nel Secondo esilio, già nel 1828 un suo articolo sulla guerra russo-turca e sull’insurrezione greca era stato rifiutato da Vieusseux per la delicatezza dell’argomento e per la virulenza dei toni: Tommaseo condannava l’intervento russo a favore degli insorti greci, che rischiavano di liberarsi da un impero in decadenza per cadere schiavi di un impero in espansione. «Quale dei due popoli, il Russo o l’Ottomano, è da vera civiltà più lontano?», si domandava, e la risposta era che la Russia è «più turca dei Turchi».[15] Stando alle memorie dedicate a Vieusseux, anche quest’ultimo sarebbe stato comunque dello stesso parere: «Né, per non amare la barbarie turca, egli adorava la tirannide russa, quand’anco si mascherasse da liberatrice de’ popoli: e poteva ripetere col Droz, che i pericolosi incrementi dell’impero moscovita erano un legato all’Europa lasciato dall’impero di Francia».[16] Secondo il Tommaseo memorialista, proprio la censura russa, assieme a quella austriaca, sarebbe stata dietro all’intervento d’autorità del granducato di Toscana che decretò l’improvvisa cessazione della rivista di Vieusseux. Tommaseo si domanda se il primo a risentirsi contro la «Antologia» fosse l’ambasciatore austriaco per il famoso passo incriminato sul Pausania del Ciampi, o non piuttosto quello russo, Aleksandr Gorčakov, per l’allusione ad una “dispersa nazione” in un articolo firmato L. e dedicato ad un poema su Pietro il Grande.

Certo, è molto probabile che queste memorie riflettano più il Tommaseo degli anni ‘50-’60 che non quello del 1832; vi si leggono i riflessi dell’insurrezione polacca del 1863, appena soffocata, e un accumulo di acredine nei confronti dell’impero zarista che negli anni della «Antologia» perlomeno non traspare ancora.

Ad ogni modo, la disavventura della «Antologia» metterà allo scoperto lo spirito prettamente politico del dalmata. L’esilio parigino degli anni ’30 offrirà a Tommaseo l’opportunità di frequentare ambienti spiccatamente ostili alla Russia; prima di tutto gli ambienti dell’emigrazione polacca, che dopo i moti polacchi del 1831 godeva di un’amplissima popolarità in tutta l’Europa liberale; Tommaseo entra in contatto anche con quel piccolo e agguerrito nucleo di russi convertiti al cattolicesimo che aveva il suo centro d’attrazione nella solerte attività missionaria del gesuita padre Ivan Sergeevič Gagarin e nel salotto della Sof’ja Petrovna Svečina.[17] Il legame con la Svečina, accesa seguace di Xavier de Maistre, non dovette essere particolarmente stretto, tuttavia fu cordiale: sul finire del 1848, come emissario della Repubblica Veneziana a Parigi, Tommaseo si rivolse alla nobildonna russa, che era in rapporti con il ministro Falloux, perché questi gli procurasse un udienza presso il nuovo capo del governo francese.[18]

Sin dai tempi delle campagne napoleoniche, ma soprattutto dopo l’insurrezione polacca del 1831, La Russia, come impero autocratico e liberticida, come paese dello knut, degli “ukaze” (gli editti dello zar), della servitù della gleba, dei rigidi esili siberiani e dei feroci guerrieri cosacchi, rappresentava nell’immaginario collettivo dell’Europa occidentale un’entità poco conosciuta e misteriosa, una sorda e spaventosa minaccia.[19] Anche rinunciando agli aspetti più emotivi di tale visione negativa, per Tommaseo l’Impero zarista rappresentava naturalmente uno dei principali nemici delle aspirazioni libertarie e nazionali dei popoli. Negli anni dell’esilio parigino, Tommaseo legge il popolarissimo Libro della nazione e dei pellegrini polacchi di Adam Mickiewicz. Ha anche l’occasione di incontrare almeno un paio di volte il poeta polacco.[20] Collabora per poco tempo al Polonais del conte polacco Władysław Plater, del quale, tuttavia, lascerà una descrizione poco lusinghiera.[21] È opinione di Daniele Mattalìa che il Plater servisse da modello per raffigurare l’irruente conte russo di Fede e bellezza:

Un giovane conte russo, bello di bellezza russa, colto di coltura russa: colore parigino, sapore sarmatico: un misto d’orgoglio, di vanità, d’albagia. I minori di sè trattati come cose, gli uguali senza tenerezza, i maggiori senz’amore: sfoghi d’ira bestiale, repressi a lungo da vergogna di parer troppo russo, ma scoppianti a volte con impeti più selvaggi.[22]

A proposito di questo romanzo, l’episodio del conte russo offre qualche spunto d’interesse. La descrizione del personaggio risponde, infatti, in buona parte, a stereotipi diffusi (a partire dal belletristico “sapore sarmatico”), tuttavia si tratta di stereotipi dotati di una propria vitalità, evidentemente sperimentati e, per così dire, ”collaudati” nell’osservazione diretta di un certo ceto nobiliare russo e polacco che abbondava a Parigi: così l’idea del carattere paziente dei russi, pronti però ad esplodere con enorme violenza dopo aver troppo a lungo represso i propri malcontenti, idea che risponde al concetto russo di “stichija”, che indica le forze incontrastabili della natura. Tipico e spesso riscontrabile nella letteratura e nella memorialistica l’atteggiamento altezzoso di molti nobili russi verso i sottomessi, così come appare tipica la simpatia innata verso tutto ciò che è italiano:

quando mi seppe italiana (egli che, solo tra quanti eran lì, d’italiano sapeva assai) ne fu lieto. Mi trattava con rispettosa domestichezza, ai più de’ Francesi non nota [...]: e le impazienze sue furibonde [ancora la stichijarussa..., S.A.] placava per riguardo a me, e le superbie ammansava.[23]

Rappresentando una categoria, il conte russo rivela in sé elementi riconoscibili e verosimili, ma si contraddistingue per un eccesso di tipicità. L’idea romantica del russo “naturale”, nel bene e nel male ancora incontaminato dalla civiltà occidentale, si rispecchia nel romanzo in una forma già mediata dalla belletristica dell’epoca e nel complesso poco realistica e tendenziosa. Materiale rozzo, irruente, il conte ama la cultura francese in tutte le sue manifestazioni più popolari e modaiole, quelle più aborrite dal Tommaseo e dalla sua ineccepibile eroina (vaudeville, neoclassicismo architettonico, il ballo, ecc.):

Le cose che m’andavano meno, garbeggiavano a lui: le corse de’ cavalli, i drammi urlati, il ballo (ballavo per servirlo), la musichetta francese, le donne letterate, la visita de’ campanili. Si divertì più alla galleria delle monete che a quella de’ quadri: e ne’ quadri abbracciava con gli occhi la ciccia del Rubens, le arie di teste di Frate Angelico non capiva. Passando dal ponte dell’Arti gli mostravo quel po’ di verdura che cresce modesto nell’isoletta [...]: ed egli: sì, bene: e guardava la facciata dell’Istituto, e le fide colonne appiccicate agli edifizii di Francia, che pare vogliano entrar loro in corpo. [...] Incolleritosi, non vedeva più lume. Temevo sempre duelli, e fino baruffe. E m’ondeggiava tra il boairdo e il piazzino [...]. Natura buona; ma troppo ci voleva a educarla.[24]

Il russo è dunque natura buona, ma troppo ci vuole ad educarla... La sua presunta purezza primordiale, in grado di apportare forze fresche alla decadente spiritualità occidentale, secondo un’idea cara ai romantici e fatta propria dal pensiero slavofilo, è al tempo stesso d’ostacolo allo sviluppo della civiltà russa quando questa viene a contatto col mondo corrotto e materialista che Parigi meglio di ogni altro luogo rappresenta. L’attrazione dei russi per la Francia e più in generale per l’Europa rappresenta per Tommaseo la loro rovina e la rovina dell’Europa. I russi assimileranno alla perfezione i “vezzi” francesi rimanendo, però, un popolo primitivo e brutale. Un’immagine ricorrente nella pubblicistica dell’epoca è quella della Russia come un gigantesco orso che anche quando abbraccia l’Europa non sa dosare le immense forze e la stritola...

Se nel 1828 Tommaseo parlava con generica (e forse insincera) simpatia dello zar “Niccolò”, per la cui «munificenza fiorirebbero l’Accademia russa e le scienze patrie» (un’informazione piuttosto distante dalla realtà, ripresa dal citato articolo di Montani sulle favole di Krylov); e se si augurava «che dal giovine imperatore sia degnamente seguito l’esempio di Caterina, la quale di per sé medesima si godeva in simili indagini», pochi anni più tardi l’opinione sulla dinastia dei Romanov è assai differente: al «barbaro Niccolò», il «feroce Niccolò», «vergogna del nome slavo», Tommaseo si rivolge senza mezze misure: «Ladro delle libertà, uccisore de’ popoli, assassino appostato sulla via della civiltà, falsario dell’anime, quello sul quale tu siedi, non è trono, ma gogna».[25] Caterina II, invece, è definita con una certa volgarità «concubina di tutte le Russie», e insieme a Maria Teresa d’Austria è stata punita da Dio «nelle morti violente d’Antonietta e di Paolo, e ne’ flagelli, che inesorati verranno».[26]

Lo stesso Puškin, ricordato sulle pagine della «Antologia» come «il poeta della nazione, il prediletto del giovine imperatore», viene in seguito liquidato come «un’eco del Byron», nel solco di un ennesimo luogo comune che accompagnò assai a lungo la fama di Puškin.[27] Negli scritti del dalmata non si incontra nessun nome di scrittore o di letterato russo oltre a quello del Puškin emulo di Byron. Bollare il poeta nazionale russo di emulazione significava inquadrarlo in quell’idea preconcetta della letteratura russa come superficiale e d’importazione, una letteratura che si presumeva avulsa dal substrato culturale autenticamente russo, un’eco sterile di esperienze straniere:

...uno dei più gravi mali che possano accadere alle lettere slave: dico l’imitazione delle moderne letterature europee [...]. La civiltà russa, siccome l’ultima a sorgere, non può non parere imitatrice anche quando non è. Ivi sono più istinti che idee; né uomini occupati a ingrandire l’impero pur troppo grande, e a difendersi dai pericoli di quella grandezza, hanno tempo di coltivare il pensiero.[28]

L’idea del Puškin “Byron russo” assumeva agli occhi di Tommaseo l’aggravante del “cattivo” modello: non solo Byron era, a suo giudizio, un poeta mediocre; la sua poetica era del tutto estranea alla sensibilità slava. Si tratta di un giudizio che non sarebbe risuonato nuovo in Russia, dove molti scrittori e letterati sin dagli anni ’20 si erano espressi negativamente, se non sul Byron, almeno sulla moda byroniana e sull’imitazione in primo luogo del Childe Harold. Gli anti-Childe Harold fioriscono nella letteratura dell’epoca, a testimoniare della grande popolarità del fenomeno byroniano, ma anche della sua limitazione e critica. Lo stesso Puškin, che in Europa portò a lungo la fama di poeta byroniano, si era distaccato da questo modello dopo una brevissima infatuazione; il suo capolavoro Evgenij Onegin è per molti aspetti proprio una sobria risposta al culto di Childe Harold. Ma le informazioni di Tommaseo sulla cultura russa erano molto scarse e superficiali. Esse non vanno al di là di quanto detto. Il rifiuto e il disprezzo di quanto è russo vanno di pari passo con il rifiuto dell’altro grande impero, quello Asburgico, e col fastidio verso la cultura germanica. È evidente che si tratta di una presa di posizione emotiva, però costante e senza tentennamenti. Questo stato d’animo trova l’espressione più forte e anche più poetica del libro Dell’Italia, scritto a Parigi intorno al 1835:

Abbiamo la Russia a cui l’ignoranza de’ popoli è unica forza; degna rivale ed erede dell’impero ottomanno; la Russia, mescuglio d’esotica eleganza e d’ingenita selvatichezza, mostro di due capi, un de’ quali in Parigi, l’altro in Siberia: la Russia, più sudicia, e da vera civiltà più lontana della Turchia; la Russia che, appena d’Asiatica comincerà a diventare potenza Europea, sarà morta.[29]

La Russia e l’Austria, sono nell’ordine dell’Europea civiltà le due forze figuranti la inerte materia, che si aggrava sullo spirito per punirlo insieme e per eccitarlo col pungolo del dolore.[30]

Il soggiorno in Corsica e il ritorno in Dalmazia del 1839 segnano l’inizio dello specifico interesse, anzi, della passione di Tommaseo per il mondo slavo e per la propria origine materna.[31] Nella pubblicistica dello scrittore entrano a far parte frequenti e circostanziate riflessioni e polemiche sul mondo slavo, in particolare su quello slavo meridionale. Per un certo tempo, Tommaseo sembra carezzare, pur con molti distinguo, i sogni dell’illirismo, partecipa attivamente e con grande veemenza al dibattito interno al mondo slavo sulla forma e sulle modalità di unione dei “popoli fratelli”, si interroga sul panslavismo e sull’opportunità di dare agli slavi un’unica lingua letteraria, di federarli, ecc. L’impegno di Tommaseo è molto sfaccettato, a partire dalla incerta coscienza sul come amalgamare in se stesso la mai dubitata italianità con la problematica identità slava. Vengono investite essenzialmente due sfere tra loro connesse: quella politica e quella culturale. La seconda finirà per essere sacrificata e subordinata alla prima, tuttavia costituisce l’origine degli interessi slavi dello scrittore. Si trattava innanzi tutto di stabilire la posizione storico-culturale della Dalmazia, regione periferica, confine in cui si intersecavano diverse tradizioni e differenti popoli. La riflessione di Tommaseo trova un forte motivo di essere nella scoperta dell’epica popolare serba, motivo di orgoglio e spunto per rivalutare la dignità della cultura e della lingua materna, fino a quel momento disprezzate e sottovalutate, anche perchè mal conosciute. Tommaseo giudica il livello culturale dei popoli slavi in base al grado di raffinatezza e duttilità raggiunta dalle loro lingue letterarie. Inserendosi in un dibattito acceso in tutti i paesi slavi, ma in particolare tra i croati e tra i serbi, Tommaseo pone dei criteri di giudizio piuttosto precisi, pur peccando di insufficiente cognizione di causa quando si riferisce a lingue come il russo, il ceco ed il polacco, che non conosceva affatto. La lingua letteraria moderna deve da un lato offrire la più ampia gamma di possibilità, deve essere utilizzabile in ogni circostanza e in ogni branchia del sapere. D’altro lato, deve mantenere un legame organico e strettissimo con la tradizione orale e popolare autoctona, deve cioè essere in tutto e per tutto lingua nazionale ed esprimere il particolare modo di pensare e di esprimersi del popolo che la usa. Di qui sorgono i problemi delle lingue letterarie slave in formazione: la troppo recente tradizione culturale di molte nazioni slave impedisce loro di possedere nella lingua strumenti di espressione paragonabili a quelli delle lingue europee di sviluppo più consolidato. Le carenze si avvertono in particolare nel linguaggio scientifico, dove Tommaseo percepisce insufficienza terminologica, e in quello artistico, dove nota incertezza e goffaggine di stile e dipendenza da modelli estranei. Così, nella lettera al Sutina, che aveva composto un Lexicon di poeti slavi, ne critica il risultato, constatando che l’esempio più alto di poesia slava è nei canti epici: «di lì può la prosa apprendere parsimonia, snellezza, efficacia; doti ignote agli slavi di tutt’i paesi; verbosi, i più, fiaccamente, che li diresti scolari d’umanità...».[32]

Il principale punto critico è rappresentato, a giudizio del dalmata, dall’abuso di termini e modi di espressione stranieri. Qui l’atteggiamento di Tommaseo è particolarmente viziato dal pregiudizio: i suoi strali non si abbattono a caso quando, per esempio, si lamenta delle «voci straniere, quali le accattano specialmente i Russi e certi Croati»,[33] con evidenti allusioni all’ambiente illirico di Zagabria e ad Ivan Kukuljević, su cui tornerò fra poco. Forse in questo eccessivo accanimento verso i prestiti va letta la conoscenza insufficiente del serbo-croato e in generale delle lingue slave: gli elementi stranieri saltano maggiormente all’occhio se riconosciuti in un contesto mal noto, all’interno del quale ciò che è alla radice slavo viene isolato in quanto tale e sottolineato come “tipico”, al limite “esotico”.

Il contributo più interessante sulla questione linguistica è quello pubblicato nelle varie edizione del Dizionario estetico alla voce “K...”, (ovvero Kukuljević), divisa in due paragrafi, “Drammi” e “Proposta di dare a tutti i popoli slavi una lingua”. Nella prima parte vengono recensiti dei drammi storici croati. La critica di Tommaseo riguarda la lingua e l’argomento, e si condensa nella formula «dal popolo il linguaggio, dalla storia patria la materia del canto».[34] Parlando del croato, il problema della carenza di lessico va risolta ricorrendo a neologismi di radice slava, oppure confrontandosi con le altre lingue slave, specialmente con quelle di maggiore tradizione, il polacco ed il ceco:

Io penso che, laddove il vocabola alla lingua manchi, e non se ne possa acconciamente comporre uno nuovo di due già noti, convenga ricorrere primieramente agli altri idiomi slavi più colti del nostro, come il boemo e il polacco, indi al greco, e da ultimo, e come per disperazione, alle lingue viventi europee. Non conviene imitare que’ Russi che fanno del loro parlare un guazzabuglio di molti linguaggi, e massime del francese, che dall’indole della lingua slava è tanto alieno.[35]

La seconda parte dell’articolo focalizza il punto centrale della questione, che è linguistico e politico al tempo stesso. Negli anni ’40, le aspirazioni panslaviste di tanti propugnatori dell’illirismo, in prima linea lo stesso Ivan Kukuljević, avevano portato a dibattito l’ipotesi di fare della lingua russa la koiné di tutti gli slavi. Tommaseo intervenne contro questa proposta con grande veemenza e preoccupazione, rifiutandola tanto aul piano linguistico-culturale, quanto, e soprattutto, su quello politico. L’articolo del Dizionario è quindi una argomentata confutazione degli argomenti a favore del russo. L’ipotesi di imporre una lingua comune a tutti gli slavi è di per sé irrealizzabile, qualunque essa sia, avverte sin dall’inizio Tommaseo. Ma anche a prendere sul serio l’idea, indirizzarsi verso la lingua russa è la scelta peggiore che si possa fare:

La lingua russa è di quelle slave la meno pura oggidì; perché usata da uomini di diverse schiatte, perché impregnata di modi di dire stranieri. La facilità di quel popolo ad apprendere, e a ben proferire le lingue più aliene dalla sua, l’abito di parlare il francese e in corte e fuori; la corte e i pubblici uffizi pieni d’uomini di razza germanica; l’imitazione dei libri e delle idee segnatamente di Francia [...]. Le idee astratte, e tutto quanto appartiene alle scienze ed al vivere più raffinato, troverebbero piuttosto vocaboli e forme nella lingua boema e nella polacca, lingue letterate da secoli.[36]

Non si può imporre una lingua per la potenza di uno stato, i meccanismi sono diversi, e non funzionerebbe. Tommaseo tutt’al più sceglierebbe, se costretto, il polacco o il boemo ( che però è «tinto segnatamente di modi germanici»), mentre «la lingua più pura, più intera ne’ suoni, più armoniosa, sarebbe la serbica [...]. Dico più pura, ma certamente più povera, perchè poco trattata ne’ libri».[37] In questa lingua, nobilitata dai canti epici, il dalmata vede la possibilità di un unione degli slavi meridionali, che però dovranno affrancarsi sia dalle tentazionì russofile che dall’influenza culturale germanica.

In conclusione all’articolo, Tommaseo bolla di ingenuità gli “uomini di Zagabria”, col sottolineare la natura multietnica dell’Impero russo, dove l’elemento slavo convive problematicamente con altri del tutti eterogenei:

Il fatto è che la Russia non può buttar via dal suo impero tutti coloro che non sono Slavi per far piacere agli amanti dell’unità della lingua [...]. Quand’anche non si metta politica nella lingua, la lingua ci batte da sé. La grammatica è alla politica come l’anticamera alla sala di udienza [...]. L’impero Austriaco potrebbe non vedere di buon occhio cotesta sterminata Accademia del Cimento.[38]

Rifiutata nettamente l’idea più massimalistica, Tommaseo accoglieva il progetto fondamentale dell’illirismo, l’unificazione degli slavi meridionali, ma vedeva nella Serbia, e non nella Croazia, il nucleo fondatore di questa nuova realtà storico-culturale. In ciò il dalmata si rivelò perspicace. Egli sperava in questa ascesa della Serbia come forza in grado di sottrarre i Balcani e parte del mondo slavo all’influenza moscovita, e idealizzava le prospettive di civiltà che questa nazione rappresentava per tutta l’area sud-orientale (si vedano in particolare le Iskrice, le prose D’un vecchio calogero e anche le argomentazioni alla voce “Silvestro Cuniberti” nel Dizionario estetico, 1867, pp.283-9). Nei confronti della lingua e della cultura russa i pregiudizi di Tommaseo erano però assai grossolani, e solo in parte può valere l’attenuante dello scopo spiccatamente polemico dei suoi articoli.

Tornando all’aspetto linguistico, la sua opinione generale sullo stato di evoluzione presente delle lingue letterarie slave è nel complesso abbastanza negativa. Si avverte come questo giudizio, che pur si appoggia su osservazioni fondate e condivise in gran parte dei paesi slavi, sia in buona misura conseguenza del particolare rapporto personale dello scrittore con il serbo-croato, a lui noto dall’infanzia, ma mai padroneggiato, e considerato alla stregua di un dialetto, privo cioè delle caratteristiche necessarie ad una lingua di cultura. Il serbo-croato letterario dell’epoca gli appariva imperfetto rispetto all’italiano e alle lingue letterarie classiche, e non a caso era il periodo di maggior indeterminatezza e magmaticità di questa lingua, che si andava consolidando come sintesi di diverse tradizioni e parlate, ma senza mai raggiungere una stabilità definitiva. D’altro canto, questa stessa carenza di letterarietà ne costituiva il fascino, la genuinità, intesa in senso romantico; le potenzialità letterarie della lingua erano ancora tutte da sviluppare, mentre «le lingue de’ popoli invecchiati nell’arte per troppo ricercare il decoro, e riponendolo in certe false convenienze, dalla vera dignità si disviano».[39] In questo dilemma linguistico, così venato di romanticismo, si riflette lo sdoppiamento di identità culturale del Tommaseo, come espresso paradossalmente anche in una lettera al Capponi del giugno 1846: «Misero me che ho smezzata la vita tra due nazioni, una in culla e l’altra in bara!»,[40] — dove la nazione in culla è quella slava e quella in bara l’italiana, la cui gloria appartiene al passato.

Alla voce “Gli slavi” del Dizionario estetico Tommaseo confidava un proprio desiderio: «la Russia non adoro», scriveva, tuttavia avrebbe voluto scrivere in slavo, senonché l’italiano gli era più famigliare e la lingua letteraria slava trovava povera e arretrata:

Gli scritti d’Illirii e di Boemi e di Polacchi e di Russi, scritti bruttati di voci straniere, alle quali potrebbersi in vece parole di forma nativa, se fosse meno la sbadataggine e la servilità. [...] Il fatto si è che genti slave ci sono, nazione slava non c’è: e Russia è impero, non è nazione. E chi ambirebbe per tutrice la Russia, vituperata dalla interna tirannide, e dalla corruzione [...]? E que’ Croati che proponevano d’accettare per propria lingua la russa, non rinnegavano eglino forse la patria..?[41]

Anche l’italiano in quest’epoca era in fase di concreta evoluzione, e il contributo dello stesso Tommaseo era più che mai attivo e creativo, ma alla base della lingua italiana egli percepiva pur sempre una tradizione classica consolidata che al serbocroato e alle altre lingue slave mancava (la riconosce però, giustamente, al ceco e al polacco, «lingue letterate da secoli»[42]). Nel caso del serbo-croato, l’unico modello tradizionale da lui riconosciuto viene ad essere la poesia epica popolare, dalla quale, riteneva, si doveva partire per porre le basi della lingua letteraria moderna degli slavi meridionali: in questo, Tommaseo era convinto sostenitore dell’opera di Vuk Stefanović Karadžić. In certi suoi scritti l’entusiasmo per la lingua dei canti epici serbi si spinge fino ad indicarla come base auspicabile per una lingua letteraria slava comune, contrapposta in particolare al russo, ventilato in questa chiave da Kukuljević e dai panslavisti. Come si è visto, il russo, lingua dell’odiato Impero zarista, veniva rifiutato da Tommaseo ancor prima che per il motivo ideologico, a causa della sua natura “ibrida”. Qui Tommaseo metteva in campo nozioni superficiali e indirette sulla lingua russa. Sapeva che il russo è lingua assai permeabile ai termini stranieri, sapeva che il ceto colto russo parlava spesso e volentieri in puro francese, sapeva che calchi e prestiti dalle lingue europee, in particolare dal francese e dal tedesco, abbondano nel lessico del russo, e che la sintassi risente in maniera altrettanto intensa di queste influenze. Aveva inoltre un’idea, seppur non molto precisa, del substrato slavo-ecclesiastico del russo e del serbo, almeno a giudicare da un suo giudizio sulla prosa di Dositej Obradović («Di prosa non abbiamo modelli: e lo stesso Obradovich, ch’è di tutti il più semplice, confonde con la vivente la favella antiquata»[43]). Tenuto conto delle vedute linguistiche di Tommaseo, del suo fervido purismo e della sua idealizzazione del linguaggio popolare, la lingua letteraria russa difficilmente avrebbe passato l’esame anche nel caso che lui l’avesse potuta osservare direttamente. C’è da credere che lo avrebbe molto sorpreso la ricchezza stilistica e semantica della lingua e anche la fortissima ed organica presenza del registro colloquiale, di origine popolare urbana, nel tessuto della lingua letteraria (una presenza decisamente più forte e meglio armonizzata con il registro colto di quanto offrisse l’italiano, nonostante i personali esperimenti dello stesso Tommaseo). Tuttavia, ciò non gli sarebbe probabilmente bastato: l’evoluzione della lingua letteraria russa con la sua sintesi di elementi disparati, dello slavo ecclesiastico come del russo medievale, della lingua popolare cittadina come di quella nobiliare infarcita di gallicismi, ecc., andava in senso contrario alle convinzioni dello scrittore di Sebenico. Tommaseo in questo senso è singolarmente in linea con l’andamento della storia linguistica croata e in parte di quella serba, improntate ad un purismo di modello tedesco. Egli avrebbe potuto benissimo avere un ruolo molto maggiore, da vero protagonista, nelle dispute sulla questione della lingua serbo-croata, e in generale sulle lingue slave, se fosse stato più addentro ad esse e se avesse padroneggiato la lingua. Tommaseo, cattivo conoscitore della cultura russa, verso la quale era anche prevenuto (basti leggere che «Né certo da’ libri russi possono gli amanti del bello trarre tanto diletto quanto da’ parecchi volumi de’ canti di Serbia»[44]), era però un profondo conoscitore del mondo slavo nei suoi moti interiori. Pregi e difetti di tutti gli slavi attribuisce anche ai russi, che di solito non esclude dalla questione; come popolo, i russi vanno distinti dall’Impero che li domina.[45] Solo in un rari interventi, dei meno pacati, e con obiettivi polemici, Tommaseo sembra accogliere la teoria “asiatica” di Franciszek Duchiński (teoria in voga tra i nazionalisti polacchi e ripresa in parte persino da Mickiewicz), secondo la quale i russi non sarebbero slavi, ma una mescolanza di popolazioni turaniche e finniche. In tali situazioni si avverte in Tommaseo l’aderenza ad un cliché pamphlettistico antirusso che era assai diffuso e facilmente riconoscibile dai lettori. Non soltanto lo stato zarista è asiatico: asiatica, tataro-mongola, ne sarebbe la stessa popolazione. Ma non si tratta per il dalmata di convinzioni di carattere etnografico, bensì soltanto di un espediente politico ed emotivo: l’orda mongolica, irrompente dall’immensa e remota steppa asiatica, suscita nell’immaginario collettivo occidentale un senso di terrore e ripugnanza. E non soltanto il mondo europeo-occidentale, ma ancor di più la stessa cultura russa è intrisa di una sorta di ossessione dell’invasione tataro-mongolica, reminiscenza di un passato che minaccia sordamente di riaffiorare. Perciò, questa non è che un’immagine suggestiva e spaventosa, come ben si coglie dalla poesia L’Europa, scritta sulla scorta degli avvenimenti polacchi del 1863, dove il poeta si interroga incredulo:

Lascian, Polonia, che il Mongollo tristo
Nelle tue donne e ne’ tuoi forti figli
Trafigga Cristo?[46]

Il “Mongollo tristo” è ovviamente il russo, che qui acquisisce una valenza addirittura anticristiana in contrapposizione al patriota cattolico polacco che si batte per l’indipendenza della sua nazione. Ma, ripeto, questa non è che un’immagine simbolica. Che i russi fossero popolazione slava a Tommaseo era chiaro.[47] Sul fatto che l’Impero zarista fosse, quello sì, “asiatico”, Tommaseo pure non nutriva alcun dubbio. Più asiatico di quello Ottomano, stando a molti suoi passi politici.[48] Solamente in rare occasioni Tommaseo riconobbe allo stato russo un ruolo non negativo, e in particolare fu critico verso le potenze che spinsero alla guerra di Crimea, nella quale, a suo modo di vedere, in forza delle circostanze i russi difendevano gli interessi dell’intero mondo slavo:

La Russia vera è ben altra da quella che appare al mondo e a sé stessa. E la necessità delle cose spinge anche adesso a giovare a civiltà: liberare e vendicare la Grecia, alleggerire agli Slavi il giogo austriaco, far argine alla lenta insaziabile rapina britannica [...]. Russia è un fascio di popoli: quando la forza sua sarà al colmo, il fascio si sciorrà. I grandi imperi preparano le repubbliche, e le piccole repubbliche i grandi imperi. Slavo sangue anco a me batte in cuore; e le glorie della gente slava desidero, i falli compiango.[49]

L’ammonimento a non danneggiare la Russia costituiva però una difesa tattica perché, come già detto, Tommaseo sognava una Serbia che ne prendesse il posto come baluardo dei popoli slavi.[50] La battaglia personale di Tommaseo contro l’espansionismo panslavista dell’Impero russo è in effetti la battaglia di uno slavo, e va osservato che come slavo egli viene interpellato e preso in profonda considerazione da ideologi come Jan Kollár, Ljudevit Gaj, Josip Juraj Strossmayer e Ivan Kukuljević, da politici come Eugen Kvaternik e Imbro Tkalač, dal principe-poeta del Montenegro, Petar Petrović Njegoš, e anche da due eminenti storici russi, F.V. Čižov e V.I. Grigorovič. A Vienna si fa censore delle sue Iskrice Jernej Kopitar, ideologo dell’austroslavismo, odioso a Tommaseo quanto il panslavismo, e quelle stesse Iskrice circolano in Croazia e in Serbia in tutta una serie di edizioni non autorizzate dall’autore delle quali si prendono cura ferventi patrioti.[51] Singolare a questo proposito un commento di pochi decenni successivo di Angelo De Gubernatis, che negli anni’70-’80 dell’Ottocento si fece erede di certe istanze che erano state proprie del dalmata, e che contribuì ad allargare lo sguardo della cultura italiana verso il mondo slavo e verso le nuove nazioni dell’Europa orientale: nella sua Storia della poesia lirica (parte della enciclopedica Storia universale della letteratura in 23 volumi), De Gubernatis include Tommaseo nel capitolo dedicato alla rassegna dei poeti slavi meridionali, recependo così l’ottica dei patrioti slavi meridionali: «Il nostro Tommaseo (per i dalmati Tomasic’) illustra i canti popolari slavi, raccomandando ai popoli slavi d’unirsi».[52]

Gli anni ’40 e ’50 sono forse il momento di massimo interesse di Tommaseo per la questione slava, in una prospettiva sempre più antirussa e avversa al panslavismo. Il rapporto in questa fase è biunivoco: è anche la Slavia a interessarsi di lui e a cercare, invano, di farne un proprio leader e ideologo, anche sopravvalutando le sue specifiche conoscenze e fraintendendo le sue opinioni a riguardo. Tommaseo, sospettoso per natura, lo era in modo particolare verso i croati ed i russi. Negli slavi della Croazia riteneva di scorgere una cultura più rozza (anche perché “intodescata”) di quella degli slavi di Dalmazia, “ingentiliti” dalla cultura italiana.[53] Inoltre, vedeva con sospetto le mosse dei politici croati. Nei pochi russi con cui venne direttamente a contatto immaginava immancabilmente degli agenti imperialisti, giunti a propagandare il panslavismo tra gli slavi meridionali al fine di traghettarli nell’orbita dell’Impero zarista. Così, accolse con un misto di simpatia personale e di diffidenza sia lo storico Fëdor Vasil’evič Čižov, incontrato a Venezia nel settembre del 1844, sia lo slavista Viktor Ivanovič Grigorovič, conosciuto sempre a Venezia nel giugno del 1846, sia nel coltissimo principe di Montenegro, conosciuto nel 1847 nella medesima città, al quale riconosceva la cultura raffinatissima e le grandi qualità di poeta, ma che attaccò tuttavia con tutta l’asprezza di cui era capace ogni qual volta il discorso cadesse sulla dipendenza politico-culturale del Montenegro da Pietroburgo:

Il Vladika Petrovich, scrittore potente della sua lingua, vescovo assassino, magnetizzato dalla corte di Pietroburgo e dai lupanari di Vienna, con addosso e la ruggine della barbarie e la carie della civiltà; il quale col danaro della Russia salariava a sé una Guardia e un Senato, corrompendo gl’istituti e gli animi di que’ montanari...[54]

[La Russia] servendosi del vladica come di servitore e satellite, mutò la costituzione antica, diede salario a’ consiglieri, circondò di guardie mercenarie esso vescovo, e per colmo di scherno gettò tra que’ sassi un torchio di stamperia. La Dalmazia, la Croazia, la Serbia, la Grecia, la Turchia, alla politica russa son campo d’una cospirazione perpetua contro gli altri potentati, e contro gli umani diritti.[55]

Parlando di Viktor Grigorovič (1815-1876), professore all’università di Kazan’, tra i fondatori della slavistica russa, tra il 1844 ed il 1847 intraprese un viaggio di studio fra gli slavi balcanici che lo portò per breve tempo anche a Vienna, dove conobbe Fran Miklošič e Vuk S. Karadžić, e a Venezia, da dove nel giugno del 1846 proseguì il suo viaggio in direzione della Dalmazia.[56] Durante il soggiorno veneziano, Grigorovič ebbe l’occasione di conoscere Tommaseo. Probabilmente, questi gli fu indicato come esperto di cose dalmatiche e slavo-meridionali; forse, anche come simpatizzante per l’illirismo. Certo è che nel corso del loro incontro (o dei loro incontri) venne trattato il tema del panslavismo e Grigorovič dovette esprimere opinioni troppo caldamente favorevoli a questa soluzione, convinto di trovarsi di fronte ad un interlocutore di analoghe vedute. A credere a quanto riportato da Tommaseo, il professore russo gli propose anche non meglio definite collaborazioni, che però egli rifiutò recisamente, affermandosi nemico della politica zarista e del panslavismo. Ciò non gli impedì di vedere nel Grigorovič un uomo «dotto e gentile», come ripeterà in due lettere a Špiro Popović («pametan i krotak», ovvero “ragionevole e mite”, nella seconda). La prima lettera, datata Venezia 9 giugno 1846, è costituita da poche righe di raccomandazione seguite da un “biglietto da visita” del Grigorovič, in serbocroato, evidentemente di pugno dello stesso studioso russo:

Caro Popovich

Il Signor prof. Grigorovich, uomo dotto e gentile ci si raccomanda abbastanza col nome di Slavo e la sua stessa presenza. Amate il vostro

Високоблаг. Г. Виктор Ивановић Григоровић

преподаватель славенских језика у свеучилишту Казанском

[Lo spettabile Sig. Viktor Ivanović Grigorović insegnante di lingue slave presso l’università di Kazan’. Traduzione mia, S.A.]

Tommaseo

9 giu

46 ven.[57]

La seconda lettera è di un mese più tardi (il 7 di luglio); Tommaseo si informa se Grigorovič sia passato da Sebenico e se vi abbia trovato Popović. Evidentemente la cosa gli stava a cuore, e nei confronti dei movimenti dello studioso russo nell’area dalmatica Tommaseo nutriva una certa apprensione, nonostante la simpatia personale che il professore di Kazan’ doveva avere suscitato in lui:

Preporučio sam vam <dio> jednog učitelja kazanskog sveučilista, koj je kroz Bugarsku putovao i sve ostanke bugarske povjesti <i> pomljom sakupio. Neznam jeste li u gradu bili kad je on prošao. Pametan i krotak čovek: nego ruski ga duh <jede> i osljepi. Ja sam mu i ustmeno i po knizi moje mnjenje prikazao, moljo ga da ne vjeruje onoj ljubavi s’ kojom će se pram njemu jugoslaveni ruskome carstvu posvjetiti [correzione di Popović “posvetiti”]. Iz ruskog naroda možemo mi svako dobro s’ vrjemenom čekati; iz ruskog carstva ništa nego verige, lupenja i sramotu.[58]

[Vi avevo raccomandato un insegnante dell’università di Kazan’, il quale ha viaggiato per la Bulgaria e vi ha raccolto scrupolosamente tutte le vestigia della storia bulgara. Non so se eravate in città quando è passato. Un uomo ragionevole e mite: solo che lo spirito russo lo <consuma> e lo acceca. Gli ho palesato la mia opinione sia in forma orale che attraverso un mio libro, l’ho pregato di non dare fede a quell’amore verso l’impero russo che gli slavi meridionali ostenteranno in sua presenza. Noi dal popolo russo col tempo ci possiamo aspettare ogni bene; dall’impero russo nient’altro che catene, latrocini ed infamia. Traduzione mia, S.A.].

Evidente che nessuna collaborazione potesse nascere sulla base di tali posizioni, né d’altra parte Grigorovič ebbe occasione di ritornare a Venezia: il suo viaggio lo portò ad altre destinazioni.

La partecipazione di Tommaseo alle vicende slave, già così agitata e complessa, subisce una svolta abbastanza traumatica all’inizio degli anni ’60, quando sorge la questione dell’amministrazione territoriale dalmata: nel momento in cui si delinea l’inevitabile contrapposizione tra l’elemento slavo, orientato verso la Croazia, e quello italiano, difensore dell’autonomia della regione, Tommaseo si rende conto dell’inconsistenza dei suoi sogni di convivenza e sintesi delle due civiltà; prende atto e si schiera senza dubbi dalla parte italiana. A partire da questo momento l’italianità ha il sopravvento totale, e l’interesse per il mondo slavo si va spegnendo. Ciò tocca poco il suo atteggiamento verso la Russia, perché esso rimane negativo come lo era prima, con un’impennata di sdegno nei mesi successivi alla rivolta polacca del 1863.[59] Semmai, l’Impero zarista è ora più distante, e brucia meno nell’animo di chi slavo non si sente più.

Un discorso a parte meriterebbe la questione religiosa. Tommaseo nutriva avversione verso qualunque tentativo di unire forzatamente ortodossia e cattolicesimo tra gli slavi meridionali, fosse l’iniziativa di parte russa o di parte papale. A più fasi criticò il legame troppo stretto tra questione ortodossa e imperialismo russo, ma rimase rispettoso del cristianesimo orientale, al quale forse lo accomunavano certe sue vedute.[60] Non a caso, era dalla Serbia, e non dalla Polonia o dalla Croazia, nazioni cattoliche, che Tommaseo si aspettava il coagulatore che avrebbe unito gli slavi, o parte di essi, in prospettiva europea e anti-imperialista. La Russia andava limitata anche come detentrice del potere religioso sugli slavi balcanici. Anche al di là delle questioni di politica internazionale, il dominio dello stato sulla Chiesa russa appariva a Tommaseo uno scandalo innammissibile, specialmente per la «potestà soldatesca» esercitata dall’autocrazia sulla gerarchia ecclesiastica: «Al sinodo russo presiede un colonnello di cavalleria; che è ancora peggio che se uno sguattero della cucina imperiale fosse l’aio de’ principi».[61]

Secondo le speranze del dalmata, la chiesa cristiano-orientale avrebbe dovuto comunque superare prima o poi lo scisma e ricongiungersi alla chiesa cattolica, conservando la propria purezza spirituale, ma lasciando cadere le differenze, che erano avvertite da Tommaseo, come da molti altri coevi, come esteriori e condizionate dalla storia e dalla politica degli stati. L’unione delle chiese gioverà anche, e principalmente agli stati ortodossi, alla Serbia, alla Russia e alla Grecia:

La Russia, quando avrà unito il rito orientale al latino, sarbando quelle libertà che erano de’ primi secoli della Chiesa, e togliendo via le diversità del domma, la Russia avrà grandezza onorata, in Oriente, e lascerà in pace l’Europa.[62]

Pregare che una per fede ridiventi con l’Italia la Grecia è un pregarla religiosa e intellettuale grandezza. Ma così membro staccato dal corpo europeo, sarà sempre sotto il fendente russo; e non avrà vita se non per tormentarsi e dissolversi da se stessa.[63]

Dunque c’è spazio per sperare in un incivilimento anche della Russia. Tuttavia, si tratta di proiezioni in un futuro remoto che non possono minimamente mutare l’atteggiamento di Tommaseo verso questo paese. Nei suoi scritti non c’è eco delle riforme di Alessandro II (seconda metà degli anni ’50, primi anni ’60), nulla lo spinge a sperare in benché minimi cambiamenti imminenti nell’impero zarista. Non può sorprendere che Tommaseo, pure al corrente degli avvenimenti politici russi, rimanesse del tutto all’oscuro di quanto stesse avvenendo nella cultura di quel paese. Si tratta del resto di una carenza strutturale della cultura italiana (e in buona misura europea) dell’epoca. La conoscenza della Russia era troppo univoca e scarsa nell’Italia risorgimentale perché persino un Tommaseo, così addentro alle questioni del mondo slavo, potesse avere una dimensione reale di ciò che avveniva a livello di cultura e letteratura in Russia. Ad ogni modo, né i versi di Puškin e Lermontov, né la prosa di Gogol’ e Turgenev avrebbero potuto attenuare la sua avversione nei confronti dell’impero zarista. Peccato, però, che non abbia voluto approfondire i suoi interessi slavi anche in direzione della Russia, dove avrebbe certamente riconosciuto <singoli meriti>. Peccato che la sua padronanza della lingua serbo-croata gli sia stata insufficiente per valutare più a fondo certe questioni linguistiche, storiche e culturali dell’intero mondo slavo, che pure egli ha intuito. Peccato che in fin dei conti egli abbia scelto tra italianità e slavità: per quello che ha scritto, per molte scelte che ha compiuto, Tommaseo si è rivelato effettivamente slavo e italiano al tempo stesso.



[1] All’interno della vasta bibliografia, segnalo: R. Ciampini, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1945; J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, Venezia, Marsilio, 1977; I. Frangeš, Tommaseo traduttore dei canti illirici, in AA.VV., Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, a cura di V. Branca e G. Petrocchi, Firenze, Olschki, 1977, pp.533-46; N. Stipčević, La presenza del Tommaseo nella letteratura serba, ibid., pp.571-82; M. Zorić, Tommaseo e il suo “maestro d’illirico”, in Id., Italia e Slavia. Contributi sulle relazioni letterarie italo-jugoslave dall’Ariosto al D’Annunzio, Padova, ANTENORE, 1989, pp.281-2 (1° ed. in «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia», N.6, 1958, pp.169-74); Id., Dalle due sponde: Contributi sulle relazioni letterarie italo-croate, Roma, Il Calamo, 1999; A. Agnelli, Il destino dei popoli slavi nella prospettiva europea di Niccolò Tommaseo, in AA.VV., Niccolò Tommaseo e Firenze, a cura di R. Turchi e A. Volpi, Firenze, Olschki, 2000, pp.85-110; Stipčević, Tommaseo e la Serbia, ibid., pp.253-71.

[2] Vedi in particolare A. Tamborra, Niccolò Tommaseo, il mondo ortodosso e il problema dell’unione delle Chiese, in AA.VV., Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, cit., pp.629-36.

[3] N. Tommaseo, Lettera al Sig. Giaxich, in «Antologia», vol.32, n.96 (dicembre 1828) pp.113-5. Vedi anche in Id., Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, t.I, a cura di R. Ciampini, Firenze, Sansoni, 1943, pp.28-32.

[4] Così si era espresso per primo l’abate Carlo Denina, lanciando nel 1784 la frase profetica e ormai celebre: "Noi leggerem forse ancora libri Russi" (C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura, Berlino, 1784; Napoli, 1792, pp.272-7). Ancor più celebre l’affermazione di Francesco Algarotti sulla Pietroburgo «finestra aperta sull’Europa» (F. Algarotti, Viaggi di Russia, Torino, Einaudi, 1942, lettera del 30 giugno 1739).

[5] Tommaseo stesso indica all’inizio della lettera la sua fonte diretta: si tratta di un articolo sulla poesia boema pubblicato da «Le Globe». Una rivista di riferimento in questo periodo era poi la «Revue Encyclopédique».

[6] Negli anni ’30 questo complesso tende a venire superato. Una spiegazione del fenomeno di crescita della letteratura russa attraverso l’imitazione troviamo per esempio nei primi saggi di Vissarion Belinskij, che mostrava essere la letteratura «non un prodotto allogeno, ma un trapianto», la cui storia consisteva nel «mettere radici su un nuovo terreno e rafforzarsi col nutrirsi della sua linfa» (V.G. Belinskij, Polnoe sobranie sočinenij, t.VII, Moskva, 1955, p.107). È stato notato che l’opinione di Belinskij fu ripresa da Carlo Tenca nel suo ampio saggio critico “Della letteratura russa”, pubblicato sul «Crepuscolo» nel 1852 ma probabilmente ignorato dal Tommaseo (vedi Z.M. Potapova, Russko-ital’janskie svjazi. Vtoraja polovina XIX veka, Moskva, “Nauka”, 1973, p.78).

[7] M., Fables russes de M. Kriloff imitées en vers français et italiens par divers auteurs etc, Paris, Bossange 1825, in «Antologia», vol.23, n.68, agosto 1826, pp.100-47.

[8] «D’umil gente, dal popolo attinse la sincerità del sentire, che gli diede pensieri a lui proprii. E’ mi raccontava della colonie slave nella sua infanzia osservate, che dopo secoli tengono le consuetudini patrie» (Tommaseo, Di Giampietro Vieusseux e dell’andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, 2° ed. con aggiunte, Firenze, 1864, p.35). Gli articoli di Pepe per la «Antologia», firmati G.P., avevano destato la curiosità di Tommaseo sin dal loro apparire; interrogato in proposito, Vieusseux gli aveva svelato per lettera chi ne fosse l’autore, esprimendo apprezzamento per il Pepe nonostante il suo stile “vesuviano” (vedi Carteggio inedito Tommaseo-Vieusseux, vol.I, a cura di R. Ciampini e P. Cioreanu, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956, p.62). Solo in seguito Tommaseo aveva potuto apprezzare di persona le qualità del Pepe, e non ultimo motivo di simpatia doveva venirgli questa sua familiarità con le comunità slave (croate) del Molise.

[9] G.P., Voyage dans la Russie méridionale, de M. Gamba. Paris 1826, in «Antologia», vol.25, n.73 (gennaio 1827), pp.17-43, a p.42. La Russia è per il Pepe «un potentato, non ha guari né colto né ancora europeo», dove però si è rianimata «una novella energia vitale» (ibid., p.19).

[10] G.P., Viaggio per la Tauride nel 1820. Opera di Murawieff-Apostol, Pietroburgo e Berlino, ivi, vol.37, n.111 (marzo 1830), pp.59-75.

[11] Tra i contributi del Ciampi sulla «Antologia» distacca un esteso articolo che, documentando le presenze di artisti e diplomatici italiani nella Moscovia del XV sec., confuta l’idea di una Russia barbara e primitiva prima dell’avvento di Pietro il Grande: S. Ciampi, Sullo stato delle arti e della civiltà in Russia, prima del regno di Pietro il Grande, ivi, vol.31, n.92, agosto 1828, pp.19-38.

[12] Sulla storia russa vedi K.X.Y., Narrazione delle cose avvenute in Mosca addì 20 settembre del 1682, dopo la morte di Alessio Mikalowicz... pubblicata dal cav. Sebastiano Ciampi, Firenze, 1829, ivi, vol.34, n.101 (maggio 1829), pp.126-8.

[13] Ivi, vol.36, n.106 (ottobre 1829), pp.160-1, firmato come consuetudine K.X.Y.

[14] Ivi, vol.41, n.123, marzo 1831, pp.122-4.

[15] Tommaseo, Il secondo esilio, vol.I, Milano, 1862, pp.30-1: «Dal ventotto nella guerra tra Russia e Turchia, dove tutti vedevano con gioia la tirannide turca umiliata, io temevo la Russia più turca de’ Turchi [...] e ne scrissi per l’Antologia una pagina che non venne accettata come illiberale, la quale io ho conservata». Cfr. anche Id., Di Giampietro Vieusseux..., cit., p.46.

[16] ibid., p.102

[17] Il salotto di Sof’ja Svečina era uno dei punti di attrazione per i russi di stanza e di passaggio per Parigi. Uno dei più importanti frequentatori di questo salotto, il filosofo Petr Čaadaev, ne fu sicuramente influenzato (basti dire che si convertì al cattolicesimo), e le sue convinzioni, così importanti per lo sviluppo del pensiero in Russia, risentono anche di questo retroterra. Su padre Gagarin e sulla Svečina vedi Tamborra, op.cit., pp.584-93.

[18] Nell’archivio di Tommaseo a Firenze si conservano 4 sue lettere alla Svečina e altrettante risposte di questa a riguardo della detta questione (BNF, Fondo Tommaseo, carteggio 132, 70-71).

[19] Cfr. nell’articolo citato di Montani: «Veniva intanto Souwarow co’ suoi cosacchi astati e barbati, che ancor mi par di vedere, a confondere affatto le nostre idee intorno alla propria nazione» (M., Fables russes..., cit., p.102). È dalle Serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre che Tommaseo assimila un’altra immagine emblematica della Russia, quella della statua di Pietro, ambigua come la sua nazione: «Quel braccio terribile, sopra la tarda posterità che s’accalca dintorno all’imagine altera, quel braccio terribile è teso ancora: né sai se quella mano di bronzo sia in atto di proteggitrice o di minacciante» (J. de Maistre, saggio giovanile di traduzione di Tommaseo, riportato in Id., Memorie poetiche, a cura di M. Pecoraro, Bari, Laterza, 1964, p.187).

[20] Vedi Il primo esilio di Nicolò Tommaseo: lettere di lui a Cesare Cantù edite ed illustrate da E. Verga, Milano, Cogliati, 1904, p.69; Tommaseo e G. Capponi, Carteggio inedito dal 1832 al 1874, per cura di I. Del Lungo e P. Prunas, vol.I, Bologna, Zanichelli, 1911, p.263. Nella lettera a Capponi del 14 giugno 1835 si trova un ampio elogio di Mickiewicz, culminante nel significativo paragone: «Conoscere Mikiewitz a Parigi, gli è come cogliere una viola in Siberia», dove sono accomunate in negativo Parigi e la Siberia. Il cliché siberiano funziona in questo caso molto poeticamente!

[21] «Compilava un giornale, intitolato Il Polacco, un parente di Emilia Plater, conte, vanerello, che aveva, oltre ai difetti polacchi, taluno dei russi e taluno dei francesi» (Tommaseo e Capponi, Carteggio..., cit., p.636). Vedi anche un’allusione all’ambiente, e probabilmente allo stesso Plater, in Fede e bellezza: «...uno di que’ Polacchi che imbevuti delle empietà francesi del secolo passato e delle cupidità del presente, s’ingegnano di ridurre in danaro contante e in piaceri senz’amore, la gloria, i dolori ed il sangue de’ loro pii ed animosi compatrioti» (Tommaseo, Fede e bellezza, Milano, Rizzoli, 1963, p.92).

[22] ibid., p.33. Per l’ipotesi di Mattalìa, vedi ibid., p.260. Tale ipotesi appare un po’ flebile, non essendo suffragata da concreti indizi. Innegabile che dall’ambiente dell’emigrazione, tanto russa che polacca, Tommaseo potesse trarre numerosi modelli per il proprio personaggio.

[23] ibid.

[24] ibid., pp.37-8.

[25] Tommaseo, D’un vecchio calogero, pubblicazione di Zorić (Le prose “D’un vecchio calogero” di Niccolò Tommaseo, in Id., Italia e Slavia..., cit., 345-71, a p.361). Vedi anche sotto il titolo Ai popoli slavi in Tommaseo, Scritti editi..., cit., pp.85-107.

[26] Tommaseo, Italia, Grecia, Illirio, Corsica, Isole Ionie, Dalmazia, in Id., Scritti editi..., cit., pp.225-357, a p.240.

[27] Id., “K...”, Dizionario estetico. Parte moderna, Milano, 1853, pp.155-60, a p.157. Va detto che a Puškin viene accomunato in questa occasione il pur apprezzato Mickiewicz: entrambi i poeti “hanno pur troppo imitato lo zoppo titano di Scozia...”, ibid., p.156. Altrove Tommaseo riporterà un aneddoto liceale sulle grandi qualità morali di Puškin: «Entrando un dì nella scuola dove studiava il poeta Puchine Nicolò delle Russie, e domandando chi della scuola era il primo, il giovanetto rispose: qui non c’è primo; siam tutti secondi. Il simile dovrebbero dire l’un dell’altro i popoli tutti» (Id., Via facti. La Croazia e la fraternità. Di nuovo a’ Dalmati, Trieste, Colombo Coen, 1861, p.14). Si tratta di un exemplum ripescato evidentemente da fonti indirette, tra i molti aneddoti puškiniani che circolavano tra i russi, e perciò non ha alcuna relazione diretta con la letteratura russa.

[28] Id., “K...”, Dizionario estetico, cit., pp.156-7. Vedi anche in una lettera a Špiro Popović: «Dalle cose di Serbia e di Bulgaria, purché la Russia non ci s’immischi, c’è da sperare. Ma guai a chi s’affida alla Russia, a cui la cupidigia, e l’orgoglio barbarico e il dispregio e l’odio del sangue proprio, e l’imitazione delle estere cose [il corsivo è mio, S.A.] saranno rovina, ed infame rovina!» (citato da Zorić, Carteggio Tommaseo-Popović, II (1842-43), in «Studia Romanica et Anglica Zagrebensia», 27-28/1969, pp.207-94, a p.285).

[29] Tommaseo, Dell’Italia. Libri cinque, a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino, UTET, 1921, vol.I, p.7 (reprint a cura di F. Bruni, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003).

[30] ibid., p.39.

[31] Vedi Ciampini, op.cit., p.279; S. Bonazza, “Nikola Tomazeo istraživač srpske književnosti”, in fase di pubblicazione in «Naučni sastanak slavista u Vukove dane», 32/2 (2004), Beograd, 2004, pp.395-409; Zorić, Carteggio Tommaseo-Popović, I , cit., pp.169-74.

[32] Tommaseo, “Lettere slave”, Dizionario estetico, Firenze, Le Monnier, 1867, pp.978-1010, a p.978. E ancora: «Vanno differenziati modi popolari e modi degli scrittori (i primi schietti, gli altri spesso lingua morta)», ibid.

[33] Id., “Etimologie slave-latino-greche”, Dizionario estetico (1853), pp.329-39, a p.329.

[34] “K...”, ibid. p.156.

[35] ibid. Cfr. la voce “A un giornale di Fiume in lingua illirica”, Dizionario estetico (1867), pp.503-6, a p.505: «tanto penoso lo scrivere illirico a chi non voglia lasciarsi andare a modi di forma latina o greca, francese o tedesca, che mal si conformano all’indole dell’idioma: come in Russia e altrove pur troppo si fa».

[36] Id., “K...”, Dizionario estetico (1853), p.157.

[37] ibid.

[38] ibid., p.160.

[39] “Etimologie slave-latino-greche”, ibid., p.331.

[40] Tommaseo e Capponi, Carteggio, cit., vol.II, p.358.

[41] Tommaseo, “Gli slavi”, Dizionario estetico (1867), pp.980-1.

[42] Id., “K.”, Dizionario estetico (1853), p.157.

[43] Id., “A un giornale di Fiume in lingua illirica”, Dizionario estetico (1867), p.506.

[44] Id., “K.”, Dizionario estetico (1853), p.159.

[45] «propongo, nel parlar della Russia, distinguer sempre meglio il governo dalla nazione, ed in questa confidare» (Id., Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino, Einaudi, 19463, p.350, 8 settembre 1844).

[46] Id., Poesie, Firenze, le Monnier, 1911, p.83. Sono debitore per questa citazione ad Anna Tylusińska, al cui intervento nel presente volume rimando per una specifica analisi dei rapporti di Tommaseo con i polacchi.

[47] In un’occasione ho trovato considerazioni di Tommaseo su una finnicità dei russi, e precisamente in una sua lettera a Popović del 1843, dove comunque domina un sentimento di astio: «Il Turco è sangue più caucaseo del russo; il russo tira al finnico, vale a dire al maggiàro. La Russia è più da temere a’ Serbi ed a’ Greci, che la peste d’Egitto». (Zorić, Carteggio Tommaseo-Popović, II, cit., pp.289-90). Anche i magiari sono nell’ottica di Tommaseo un popolo dispotico e di “ferocia mongolica” («L’Unghero è un Turco cristiano», Tommaseo, Il secondo esilio, cit., vol.III, p.315). Ma è comunque difficile trovare in questo tipo di affermazioni delle reali convinzioni etnografiche.

[48] Vedi per es. Tommaseo, Dell’Italia, cit., vol.I, p.7; Id., Di Giampietro Vieusseux..., cit., p.46.

[49] Id., Il secondo esilio, cit., vol.II, pp.26-27 (è lo scritto “Per albo di donna russa”, Corfù, marzo 1850).

[50] Vedi Id., “Silvestro Cuniberti”, Dizionario estetico (1867), pp.283-9.

[51] Che il censore viennese delle Iskrice fosse Jernej Kopitar è informazione inedita, comunicata per la prima volta da Sergio Bonazza al convegno tommaseiano di cui il presente volume riporta gli atti. Perciò per i dettagli rimando al corrispettivo articolo di Bonazza in questo stesso volume. Per quanto riguarda la storia editoriale delle Iskrice nel mondo slavo meridionale, vedi l’introduzione di Luigi Voinovich a Tommaseo, Scintille (Iskrice), Catania, F.Battiato ed., 1916.

[52] A.De Gubernatis, Storia universale della letteratura. Vol.III: Storia della poesia lirica, Milano, Treves, 1883, pp.425-6. Sui rapporti tra Tommaseo e De Gubernatis, vedi Cioreanu, Niccolò Tommaseo e Angelo De Gubernatis. Carteggio inedito, in «La rivista dalmatica», dicembre 1939, pp.35-47; maggio 1940, pp.27-36. Vedi anche S. Aloe, Angelo De Gubernatis e il mondo slavo, Pisa, TEP, 2000, pp.76, 117, 233.

[53] «Da trent’anni in qua la Croazia si viene stedescando e dirozzando», scriveva Tommaseo nel 1866 — «Quando il vescovo Strossmayer, ritornando da Roma, venne a vedermi, e seco era un canonico, Racki, erudito di cose storiche, ma secco e nero a vedere, e di quel legno di cui fabbricansi i caporali croati, io, compiacendomi nella faccia serena e nella disinvolta facondia del vescovo, notavo con lode la sua corretta pronunzia; ed egli, per porre nelle mie grazie la Croazia tutta quanta (giacché questo era l’intento evidente della sua visita): “Tutti, rispose, in Croazia così si parla”. Il buon canonico allora, come il corvo della favola, aperse la bocca: e monsignore rimase male a vedersi sbugiardato così» (Tommaseo, Cronachetta del 1865-66, Firenze, Le Monnier, 1940, pp.125-6).

[54] Id., Venezia negli anni 1848 e 1849: Memorie storiche inedite con aggiunta di documenti inediti e prefazione e note di P. Prunas, vol.I, Firenze, Le Monnier, 1931, p.107.

[55] Id., Del presente governo della Dalmazia, in Scritti editi..., cit., p.213. Vedi anche Id., D’un vecchio calogero, ibid., pp.361-5.

[56] Per un profilo bio-bibliografico di Grigorovič, vedi S.B. Bernštejn, “Grigorovič Viktor Ivanovič”, in AA.VV, Slavjanovedenie v dorevoljucionnoj Rossii. Biobibliografičeskij slovar’, Moskva, “Nauka”, 1979, pp.131-4.

[57] Tommaseo, lettera a Špiro Popović, 9 giu[gno] 46, ven[ezia], BNF, Fondo Tommaseo, carteggio 178, 13. Come riportato nel testo, la firma di Tommaseo con la data viene dopo le due righe di Grigorovič.

[58] Tommaseo, lettera a Špiro Popović, 7 sr[pnja] 46, Ml[eci], BNF, cart.cit.

[59] In occasione dell’insurrezione polacca e della sua violenta repressione, Tommaseo diede alle stampe un pamphlet dal titolo Italia e Polonia (Milano, 1863), composto di scritti vari, il cui ricavato era destinato ai profughi polacchi. Denso di pathos antirusso è anche lo scritto dedicato al martire dell’insurrezione polacca Stanislao Bechi (“March. A. Maccarani”, Dizionario estetico, (1867), pp.601-13).

[60] Mi sembra comunque esagerata l’opinione di Angelo Tamborra, che nel suo eccellente saggio Niccolò Tommaseo, il mondo ortodosso e il problema dell’uonione delle chiese (op.cit., pp.610-1) trova dei punti in comune fra il pensiero religioso di Tommaseo e la sobornost’ russa. Tali punti in comune non sono altro che derivazioni da un comune substrato filosofico e teologico, tipico dell’epoca. Lo stesso Tamborra sottolinea del resto l’importanza delle dottrine di Lamennais da un lato, di Bonald e de Maistre dall’altro, per il pensiero religioso russo (ibid., pp.591-3. Vedi anche A. Walicki, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Torino, Einaudi, 1973).

[61] Tommaseo, Il secondo esilio, cit., vol.I, pp.320-1.

[62] Lettera di Tommaseo ad Alberto Nugent, settembre 1848, pubblicata da Ciampini, Op. cit., p.711.

[63] Tommaseo, Un affetto. Memorie politiche, a cura di M. Cataudella, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1974, p.25.


Stefano Aloe, Tommaseo e la Russia, in: Niccolò Tommaseo: Popolo e nazioni. Italiani, corsi, greci, illirici, a cura di Francesco Bruni, Roma-Padova, Antenore, 2004, vol. II, pp.733-756.

На Растку објављено: 2008-07-16
Датум последње измене: 2008-07-15 23:31:07
 

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