Francesco Dall’Ongaro

Usca

Argomento.

L’argomento di questo piccolo dramma è tratto dal vero. Una fanciulla dalmata, abbandonata dal suo fidanzato per altra donna, dopo aver tentata ogni via per indurlo a mantenere il giuramento che le aveva dato, lo appostò la vigilia delle nozze, e dato fuoco alla capanna dove s’era ricoverato, volle morire con lui. Ritrattane ancor viva, fu condannata a vent’anni per omicidio e incendio premeditato; e viveva ancora nelle carceri di Gradisca, quando l’autore la raccomandò co’ suoi versi alla pietà de’ contemporanei.

Questo componimento fu ristampato più volte, recitato sovente sopra le scene, tradotto in tedesco da Gabriele Seidl e da altri poeti, e in versi francesi da Emilio Deschamps. Giovò, ciò ch’è più, a raddolcire gli ultimi anni della paziente; e citato, a quel tempo, da uno de’ consiglieri al tribunal criminale di Trieste, potè contribuire a mitigar la pena d’un'altra fanciulla, imputata d’omicidio per causa consimile.

Usca.

I. Infedeltà.

Qual pallor ti stà sul viso,
Qual affanno è nel tuo cor,
Che il poter del mio sorriso
Dileguar nol puote ancor?

Parla, o Misco; or dianzi forse
Sul crocicchio del cammin
I maligni occhi ti torse
La maliarda del Morlin? –

- No, non era la maliarda,
Ma una femmina mortal
Che nell’anima codarda
Mise un brivido feral!

Sul confin della foresta
Il sentier m’attraversò:
Ove vai? gridò, t’arresta;
Sette giorni atteso io t’ho…

Oh! non chieder ch’io ti dica
Quai rampogne ella mi fè!
Quella donna è tua nemica,
E tradita io l’ho per te!

Parmi ancora aver davante
L’occhio torvo e l’irto crin!
Men terribile il sembiante
Ha la Vila del Morlin. (1) –

- Cuor ingrato, ognor di lei
Favellar ti deggio udir?
Son pur grami i vezzi miei
Se a lei torna il tuo sospir.

Qua, t’appressa: le pupille
Torve, o caro, io già non ho;
Sul mio sen le fredde stille
Del terror t’asciugherò. –

- Ma le lagrime, meschina!
Ch’ella versa per me sol,
Chi può tergerle, Marina?
Chi può molcere quel duol?

Ella pur, mentr’io l’amai,
Era bella, era gentil,
E il sorriso de’ suoi rai
Era un’alba dell’april.

Or sul vedovo suo core
La sventura ha steso un vel;
Ella geme, e il suo dolore
La sospinge nell’avel! –

- Infedel! se ancor tu l’ami,
Volgi ad Usca, volgi il piè.
Questi eterni tuoi richiami
A bastanza udii da te!

Ben mi sta, che tanto affetto
Per costui potei nutrir!
Vanne, indegno, e al mio cospetto
Non osar mai più venir! –

Si dicendo, i labbri morse
Per dispetto e per furor,
E per l’ime ossa le corse
Un insolito tremor.

Con tal arte ella n’offusca
La mutabile virtù:
E la man promessa ad Usca
A Marina offerta fu.

II. L’impedimento.

Usca, che tardi? la notte è scura,
L’urlo del vento mette paura;
Qui fra le croci, sola così
Vuoi tu aspettare che spunti il dì?

- Oh! pastor santo, questa è la fossa
Che di mia madre racchiude le ossa;
Di qua non posso torcere il piè:
Cosa altra al mondo per me non v’è. –

- Chiuder vo’ l’uscio del cimitero.
Vattene, o figlia, pel tuo sentiero;
O se la notte ti dà terror,
Ospite vieni del tuo pastor. –

- Padre, se tanto tu se’ pietoso,
Dimmi s’è vero che ad altra sposo
Col nuovo giorno Misco sarà:
Questa novella fremer mi fa!

- Tre volte fatte furon le gride,
Né chi s’opponga finor si vide. –
- Io, padre, io stessa m’oppongo a ciò:
Misco altra donna sposar non può.

Sai tu che amata gran tempo io fui,
Ch’io vivo e spiro solo per lui? –
- Sì, ma promessa t’ha la sua man? –
- Amata dunque m’avrebbe in van?...

Quand’ei mi disse: amo te sola,
Santa mi parve la sua parola,
E mai sospetto non cadde in me
Ch’ei mi potesse mancar di fè.

Quanto io l’amava! Per esso avrei
Reciso il filo de’ giorni miei;
Infra le fiamme, nel freddo mar
Dolce per esso mi fôra andar…

Col nuovo giorno, dicesti?... E bene!
Qui vo’ restarmi fin ch’egli viene.
Per qui con essa quell’infedel
Passi, e mi trovi su questo avel!...

Padre, quel giorno che mi fu detto
Che ad altra donna volgea l’affetto,
Andò smarrita la mia ragion,
E più la stessa di pria non son.

Finchè mia madre mi visse accanto,
Fra le sue braccia nascosi il pianto!
Ora ella è spenta, sepolta qui…
Per non vedermi morir, morì.

Orfana e sola, padre, son io!
E benedetto sarà da Dio
Chi sola ed orfana m’abbandonò?
Complice il cielo non far di ciò! –

- Figlia, fu grande la tua sventura,
Ma temperarla sarà mia cura.
Ricca è la dote; larga mercè
Avrai del torto ch’egli ti fè. –

- Se non sai dirmi cosa più lieta,
Giusta è la legge che amar ti vieta!
Credi che al mondo v’abbia tesor
Per cui si cambi né venda amor?

Prete, del torto ch’ebbi da loro
Mercede io voglio d’altro che d’oro!
Mercè di sangue darmi dovrà.
Domani il grido te ne verrà. –

III. L’espiazione.

È là! – Di sbarre l’uscio
E la finestra è forte:
Risveglierassi in cenere
Sul suo guancial di morte…
Usca medesma il talamo
Di gel ti preservò!
Io lo ascoltai corcandosi
Nomar Marina… ingrato!
In quel loco medesimo
Ov’io li giacqui allato,
Ove di tutto immemore
Stretto al mio seno io l’ho. –
Or sogna forse il gaudio
Solenne, e la parola
Che di due cori unànimi
Fa un core e un’alma sola,
Che un mutuo amor santifica
Innanzi al mondo e al ciel!
Sognalo, Misco, sognalo!...
Sogno sarà soltanto. –
Già la tua sposa vigile
Previen de’ galli il canto,
E del futuro improvvida
Al crin s’adatta il vel.
Quando scoppiar l’incendio
Vedrò da quest’altura,
E certa e irreparabile
Fatta la sua sventura,
Da me stessa l’annunzio
Della tua morte avrà.
Allor potrò discernere
S’ella t’amò com’io,
E se l’amor che l’anima
È pari all’amor mio;
Fra’ divampanti vortici
Meco ella pur verrà! –
Ecco, rosseggia l’aere
Laggiù, né l’alba è ancora…
Oh! come serpe e crepita
L’incendio in sì brev’ora!
Ardi, divampa, struggilo,
Fiamma del mio furor!...
Non m’accusar tra’ spasimi
Di morte, o mio diletto!
Non ebbi anch’io lo strazio
Di mille morti in petto?
Muori: doman colpevole
Morresti e traditor.
Muori innocente! Vittima
Di perfida lusinga,
Non io potea permettere
Che un nodo empio ti stringa
A una superba femmina
Che Iddio per te non fè.
Muori innocente! Tenero
E puro avesti il core;
Bello eri al par d’un angelo,
D’un angelo d’amore…
Vanne all’eterno giudice
Pria che mancar di fè.
E non temer che timida
Me stessa indi risparmi:
Su quell’ardente talamo
Anch’io saprò corcarmi;
Ambi morremo, e polvere
Con polve s’unirà…
Che fate voi? Lasciatelo
Morir là dentro in pace!
Egli è mio sposo, e purgasi
Siccome oro in fornace:
La palma del martirio
Rapirgli è crudeltà! –
Sì, sì! l’incendio è opera
Di questa mano istessa.
Mirate lì la fiaccola:
Io l’appiccai con essa…
Silenzio!... Udiste un gemito
Da quelle fiamme uscir? –
Gemi, codardo? Tacito
Cede al suo fato il forte:
Io vo’ insegnarti, io femmina,
Ad affrontar la morte.
Lungi da me! lasciatemi
Accanto a lui morir!
E a lei dite che cenere
Il suo promesso è fatto,
E pianga eterne lagrime,
E apprenda da quest’atto
Già, pria che sposa, vedova,
Come si serbi fè! –
Disse, e correa precipite
Fra’ vortici fumanti,
Se pronti meno e validi
Non l’impedian gli astanti.
Era pietà? – Dal carcere
Risponda ella dov’è.

Trieste, maggio 1838.

Nota.

  1. Le Vile presso gli Slavi sono una specie di Fate che appariscono lungo i fiumi o sulle cime de’ monti, confortando i buoni e spaventando i malvagi. Vedi i Canti serbi raccolti e tradotti dal Tommaséo.

 


Francesco Dall’Ongaro, Usca, in Fantasie drammatiche e liriche, Firenze, Successori Le Monnier, 1866, pp. 1-11.

На Растку објављено: 2008-07-21
Датум последње измене: 2008-07-20 22:06:36
 

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