Giacomo Chiudina

Del Vladika Pietro Petrović Njeguš e del suo Gorski Vijenac (Canti del popolo Slavo)

 

Pietro Petrović Njeguš nacque il 1. o Novembre 1813 a Njeguš, villaggio del Montenero.

Aucor fanciullo, fu spedito a Pietroburgo per acquistarvi una compita educazione. Ritornato da quella città, entrò nel convento. Il vescovo di Prizren Hadži Zaccaria venne chiamato per dare al nuovo reggente gli ordini sacerdotali. Egli infatti ordinò il giovine signore del Montenero in arcidiacono e sacerdote, e lo promosse ad Archimandrita. La consacrazione vescovile e' poteva ottenere, appena tre anni dopo, a Pietroburgo, giacchè nel principio del suo governo nuovi attacchi de' turchi chiamarono i Montenerini alle armi; per le quali circostanze e' non poteva abbandonare la sua patria.

Il Vladika si nomava per lo passato Rado Tomov; ma dal giorno 6 Agosto 1833, in cui, presente l'imperatore delle Russie Nicolò, fu consacrato vescovo, assunse il nome di Pietro II. Il popolo tutto riconobbe e proclamò solennemente il giovane Rado qual Signore del Montenero, designatovi dall' illustre defunto Pietro I, di veneranda memoria presso quella popolazione. Il primo a baciargli la mano fu 1' archimandrita di Ostrog, poi gli altri capi e il popolo tutto, che vi si trovava presente.

L' attacco dei turchi fece spuntare al giovane Vladika la prima foglia d'alloro. Il Nizam, ch' è un esercito organizzato dal Sultano secondo come quelli d' Europa, qui sofferse le prime sconfitte. Vittoriosi uscirono i Montenerini dalla guerra. Allora Pietro II cominciò a rivolgere i suoi sguardi all' amministrazione interna.

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Nel piccolo principato esisteva ancora un' omlira del potere del così detto governatore, qual cupo secolare del governo. Certo Vuk Radonić era allora rivestito di quel potere. Si accorse costui della sua poca favorevole posizione, e fu consigliato di fare un tentativo per riavere di fatto il potere supremo. Egli non avrebbe potuto presentare al Vladika una migliore occasione per sbarazzarsi totalmente del governatore, desiderata già da gran tempo. Radonić venne tantosto accusato, espulso i suoi beni confiscati, e incenerita la sua casa a Njeguš. Radonić si trasferiva a Cattaro.

D'allora il Viadika, riunendo in sè il potere secolare ed ecclesiastico, cominciò a mostrarsi riformatore. Egli prese le redini dei due poteri, e compì ciò che il suo zio aveva cominciato. Riordinò quindi 1' amministrazione interna fino allora trascurata e confusa. Nel 1831 istituì il senato, che forma la parte legislativa e la suprema corte di giustizia. Esso era composto dal presidente (il fratello del Vladika) col salario di 3600 zvanziche, dal vice presidente con 3000 zvanziche, e 12 senatori con 600 zvanziche. Gli affari esteri erano trattati da un ministro coll' onorario di 2400 zvanziche; questo posto veniva occupato dal Sig. Milaković, cavaliere dell' ordine russo di S. Anna, oriundo dalmata, il di cui contegno gentile e compito lasciò per certo una grata memoria in ogni viaggiatore, che visitò Cetinje. La guardia del Vladika si componeva di 30 montenerini, distinti per l'altezza e la bella forma della persona, di provato coraggio e sentimento patriotico. Essi avevano il titolo di perjanici, portatori di pennacchio, e facevano continuamente il servizio cli guardia nel convento, ed avanti le stanze del Vladika. Ognuna di queste guardie aveva il soldo di 240 zvanziche all'anno. Oltre a questi, il Vladika aveva ancora un aiutante con 900 zvanziche di salario. Tutte queste paghe, come quelle dei maestri, venivano sostenute dalle imposte del paese. Anche la riscossione delle imposte aveva egli appena potuto attivare. Essa era assai moderata, com' è naturale, in un popolo sì povero; e per ogni famiglia, secondo il parere de' vecchiardi del paese, che allo scopo si riunivano annualmente in Cetinje, si assegnavano da quattro o cinque o sei zvanziche. Fuor di questa imposizione, la decima pei conventi e pel clero, il Montenerino non ne conosceva alcun' altra. Le summentovate paglie formavano un bilancio di 27 a. 28,00 fiorini; le imposte non superavano mai i 24 o 25,000 fiorini; il piccolo deficit annuale sosteneva il Vladika dalla sua facoltà. Egli possedeva de' beni, che si valutavano circa a 40,000 fiorini, riscuoteva eziandio fiorini 30,000 all' anno dall' imperatore russo, a titolo di ratazioni d' un debito della Russia ai Vladika, onde indennizzarli per la perdita della giurisdizione ecclesiastica in seguito alla guerra contro i francesi e in aiuto de' russi in Dalmazia. Inoltre il Vladika riceveva una parte della pesca nel lago di Scutari.

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E Vladika istituito avea delle scuole, una delle quali si trovava allora in Cetinje nel monastero antico, e contava 35 alunni, che vi trovavano gratuito alloggio, vitto, e venivano ammaestrati nel leggere e scrivere nella lingua nazionale, con lettere tanto cirilliane che latine, nella conocenza della S. Scrittura e nel conteggiare. Le più distinte famiglie concorrevano ai posti di queste scuole.

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I nobili desiderî del Vladika di spargere la coltura e la civilizzazione fra i suoi Montenerini, ad onta della generale venerazione chi' egli godeva, fallirono, in particolare per l'avìta fierezza del popolo e 1' antipatia sua contro ogni innovazione. Malgrado a tutte le persuasive, malgrado alle pene minacciate (e perfino di morte) contro l'uccisione per vendetta di sangue, non ha potuto riescire d'impedirla. Le invasioni dei Montenerini nelle provincie turche e nel territorio di Cattaro, alle quali il Vladika si mostrava sempre contrario, e che cercava sempre d'impedire, continuarono, non ostante la di lui autorità e premura.

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La comparsa di questo reggente del popolo montenerino era sott' ogni riguardo imponente. Anche nella coltura mentale e' si distingueva molto fra i suoi compatriotti; conosceva il russo e l'italiano, e negli ultimi tempi si perfezionò anche nella lingua francese e nella tedesca. Per imparare perfettamente la lingua francese aveva perfino chiamato neI 1837 il Signor Jaume da Trieste, come maestro di lingua, il quale dimorò due anni a Cetinje. Ebbe in generale molta premura per istruirsi ed impiegò ogni diligenza per conoscere 1' applicazione di una bella raccolta di stromenti matematici, che gli erano stati regalati dal Principe Metternich.

Il celebre poeta Simone Milutinović, nato a Serajevo nel 1791, che combattè sotto Giorgio, fu per 5 anni maestro al Vladika, e lo addrizzò in particolar modo alla poesia.

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Nel 1834 egli piantò una tipografia a Cetinje, ove pubblicò le sue primizie letterarie, il Pustinjak, e il Lijek jarosti turske.

Senonchè, allorquando la tipografia di Cetinje, per necessità, dovette fondersi per iscopi della guerra, il Vladika dovette stampare a Belgrado la sua bell' opera Luča Mikrokorzma, ad imitazione della letteratura russa.

La sua amicizia coll' illustre Vuk Stefanović, che si rese tanto benemerito della poesia popolare sopra tutti forse gli uomini europei, fe' sì che il Vladika abbandonasse il classicismo forestiero, e che scrivesse con spirito nazionale, raccogliendo modi di dire, proverbi, e le disperse memorie storiche nazionali, di cui v'ha gran copia nel Montenero.

Allora egli diede alla luce il Gorski Vijenac (la Ghirlanda del Monte), e lo Šćepan mali lažni Car , opere drammatiche, che di gran lunga superano le anteriori sue produzioni.

Un anno dopo e' pubblicò la Kula Kulišića. e il Čardak Aleksića, poesie improntate di spirito nazionale, che si cantano nel Montenero, e nell' adiacente littorale.

Inoltre completò egli il suo Ogledalo (Specchio) di molte canzoni.

Nel 1864 il Signor Ljubomir Nenadović rinvenne abbozzata la Slobodijada del Vladika, poema epico di dieci canti, ne' quali sono cantate le principali guerre dei Montenero.

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Il nobile principe traeva profitto delle sue ore libere. Aveva intrapreso de' viaggi per 1' Italia, per la monarchia austriaca, e per le Russie, nè il Vladika era persona nuova a Vienna. Come guerriero, il Vladika ha agito nella direzione del suo governo in un modo degno della gloria de'suoi antenati. Egli era inoltre distinto bersagliere, e cavallerizzo ardito e destro. Quantunque guerriero e valoroso, amava tuttavia di mantenere la pace, per quanto poteva. Le sue viste sulle relazioni politiche e sulla posizione del suo paese erano ben fondate. Nella conversazione personale dimostrava molta amabilità, e quei pochi viaggiatori, che visitarono quell' interessante montagna, ed ebbero ospitale accoglimento presso il Vladika, confermeranno queste parole.

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La sua residenza originaria era il vecchio monastero, stato costruito dal duca Ivan Cernojević. Il canuto eroe Ivan non poteva più difendere contro gli attacchi dei turchi la fortezza di Žabljak, 1' ultima sua possessione, nell' Albania, sul lago di Scutari sottratto al nemico.

Il Duca Ivan Cernojević, evacuata ed incendiata Žabljak, fabbricò a Cetinje una chiesa ed un monastero piccolo, ma bellissimo. In esso risiedeva il vescovo di Cetinje con 24 monaci e 40 loro allievi, parte monaci, parte secolari. Dopo e' si fece edificare anche un palazzo a Cetinje, ove trasferì la sua residenza, e fabbricò posci in riva al fiume Obod una cittadella.

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Fino all' anno 1849 il Vladika godeva della migliore salute. Essendo nel fiore dell' età virile, sembrava si dovesse aprire una più vasta sfera alla sua attività. Da quel tempo però cominciò divenire malatticcio, e troppo presto soccombeva la forza di quell'uomo gigantesco a quel male nascosto, che si diceva malattia polmonare incurabile.

Più volte il Vladika avea cercato di lenire i suoi patimenti in un clima più dolce; ma se ne ritornava sempre a Cetinje. Avea parecchie volte soggiornato a Venezia e a Napoli, ma il 28 Ottobre 1851 rincrudì la sua malattia, spiegando un carattere estremamente pericoloso. Il suo fratello mandò tosto a levare un medico a Cattaro, ma prima che questo giungesse a Cetinje, la mano della morte s' era già stesa sul principe. Morì nell' età di 40 anni non compiti, il 31 Ottobre 1851 alle 9 ant. dopo un onorato governo di 21 anni. Il senato spedì tosto due Perjanici a Cattaro e Ragusa per darne 1' annunzio alle autorità austriache ed al console russo. Si seppe pure che il defunto, pria di morire, aveva raccomandato ai Montenerini nel modo più caldo la conservazione della buona armonia con 1' Austria e che il senato da parte sua aveva minacciato le più severe punizioni a tutti coloro, che avessero trasgredito questa raccomandazione.

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Relazioni amichevoli mi legavano all' illustre Trapassato, che avea per me speciale deferenza, per avere io, il primo tradotto in versi italiani e fatte conoscere all' Italia una parte delle sue bellissime poesie.

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In fine diamo tradotto il seguente frammento, o per meglio dire prefzione al testamento del Vladlika, in cui si ammira 1' enfasi di quell' anima poetica e che suona così:

PREFAZIONE AL TESTAMENTO DI PIETRO II PIETROVIĆ NJEGUŠ

VLADIKA DEL MONTENERO

Gloria a te, che ti sei manifestato nel mondo !

Grazie a te, Signore, che degnato ti sei di guidarmi sul sentiero d' uno de' tuoi mondi, e di confortarmi benigno del raggio d' un tuo sole divino! Grazie a te, o Signore, che illeggiadrita m' hai pure l'anima su questa terra ricoperta di mille e mille tue creature! Quanto si espandeva il mio cuore, fin dall'infanzia, ne' cantici del giubilo celeste innanzi alle ineffabili tue grandezze e meraviglie; altrettanto meditava con tremore e piagnea sulla sorte dolorosa dell' uomo! La tua parola trasse dal nulla ogni cosa. L' uomo è mortale, e dee morire. Io m' avanzo pieno di speranza alle soglie del tuo divino santuario, la cui fulgida ombra ravvisai sul sentiero, che misuravano i mortali miei passi. Alla tua chiamata io vengo tranquillo, o per dormire sotto il tuo seno 1' eterno sonno, o per cantare nei cori immortali e eterne tue laudi.

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DEL GORSKI VIJENAC (1).

Nel 1700 veniva consacrato a Vescovo metropolita del Montenero Danilo Petrović dal nome di suo padre detto Sćepčević, e più tardi Njeguš dal villaggio della sua casa paterna a Njeguš.

Il seguento fatto, che noi premettiamo, spinse potentemente il Vladika all'azione, di cui tratta il Gorski Vijenac, e ch' è uno de' più importanti per le sue conseguenze.

Gli abitanti della Zenta, coll' assenso, e con la sacra parola data dal pascià di Scutari, avevano invitato il Vescovo Danilo a consecrare una lor chiesa.

Vi andò egli; ma gli ottomani, calpestando la data parola, lo presero e condussero legato a Podgorica coll' intenzione d' impalarlo.

Ma gli Zentani mossero caldissime preghiere perchè non condannasse il Vladika al supplizio del palo. Il pascià era un uomo sordido, ed ingordissimo, ed accondiscese al riscatto del Vladika per 8000 zecchini, che gli furono anche pagati.

Il Vladika, ritornato a Cetinje, tenne un energico discorso ai capi de' Montenerini, significando loro essere il Montenero ridotto nelle pià tristi condizioni per opera dei rinnegati ottomani, che egli chiama serpenti velenosi e crudeli. Gli incita a liberarsene, e dichiara di voler rinunziare ad essere loro capo, quando essi con isforzi straordinari non tentassero a ricuperare la perduta libertà.

Il suo dire inflammò i capi de' Montenerini, e la vigilia del Natale del 1702 insorsero tutti, massacrando gli ottomani che si trovavano nel Montenero.

Il Vladika lasciò una pagina splendidissima nei fasti montenerini per la sua indefessa operosità al benessere del suo paese; fu ristauratore della libertà, e gloria della sua patria.

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Il Vladika Danilo Petrović Njeguš, che n' è il protagonista, fa splendida mostra di sè per autorità e dignità, per sapere e per affetto veramente patriottico. Egli si mostra da prima oscuro e misterioso e desta tutta 1' interesse quanto più si avanza nel suo intento, da lungo meditato e maturato. Senonchè, dopo di avere spiato tutte le volontà, e scorta l'unanimità loro, egli esulta nella sua trepidazione, assumendo un fare più gajo e ridente. Va dirigendo ogni mossa, anima e dà vigore ai suoi Montenerini, compiendo per tal guisa il suo ministero di capo spirituale e civile, senza mai commettere cosa che al suo stato non si addica. Quest' è un carattere veramente bello, ben tratteggiato e pienamente sviluppato.

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Si tiene un' adunanza la vigilia della Pentecoste sul Lovčen, montagna montenerina sopra Cattaro (Monte Sella).

Il Vladika comincia con un magnifico soliloquio in cui chiama il diavolo, arcavolo del Turco, dai sette pastrani, dai due brandi, e dalle due corone; un sogno infernale incoronò Osmano; fu uno sciagurato ospite Orkano; Paleologo chiamò Ammurate I a seppellire i Greci coi Serbi; questi ingoiò la Serbia (1389), Bajasette la Bosnia (1390), Ammurate II 1' Epirio (1448), Maometto Il Costantinopoli (1453) e Selim I e II Cipro e l'Africa (1512- 1574). Continua coll' inveire dicendo che ognuno di essi ha rapita una parte del paese; più nulla resta; il mondo è circoscritto per 1' infernale bocca, che non può esser mai satolla; Giovanni Unniade ha difeso Vladislao, senza salvarlo; Skender-beg ebbe cuore di leone, ma dovette morire esule infelice. Poi, gemuto sulle tristissime sorti della Serbia, soggiunge che, al pensiero dell' imminente adunanza, sentesi rabbrividire. I fratelli, sclama egli, si scanneranno fra loro, e i Turchi forti e malvagi stritoleranno il seme Montenerino.

Egli convoca i Knezi (conti) e i Serdari a Cetinje, con mira di pacificare le inimicate tribù pei vicendevoli omicidi.

I capi si misero da parte, e il popolo danza il kolo cantando le glorie di Miloš, le vessazioni dei Maomettani, e 1' onta de' Montenerini. Eccone il kolo.

KOLO.

Il ciel benigno si sdegni co' Serbi (2),
Che d'orribili colpe han pieno il sacco.
I nostri Zari calpestar la legge!
Incominciaro a perseguirsi atroce
mente e a strapparsi l'uno all'altro gli occhi.
Il governo e la patria hanno negletta,
E la stoltezza per timon prescelta
I servi lor divennero infedeli,
E si bagnaro di regale sangue! (3).
O magnati, nell' ossa maledetti,
A brano a brano laceraste il regno.
Turpemente la serbica possanza,
Voi felloni, schiacciaste! ah sì, dal mondo
Le traccie vostre sperdansi, o magnati !
Voi seminaste la semente amara
Della discordia, e ne infettaste tutta
La progenie de' serbi — orridi corvi !
Voi siete i traditor' del popoi vostro !
Sii maledetta, o cena di Kosovo!
Sorte non volle che a quel desco spenta
Restasse di velen la rea congrega
De' magnati e de' duci e sol rimasto
Miloš ne fosse in mezzo e i due suoi prodi
Compagni! il serbo ancor serbo sarebbe!
Branković Vuko, perfida genia,
Quest' è il servigio, che la patria chiede ?
Così l' onore apprezzasi, codardo?
Ma te chi non invidia, o gran Miloscio?
Vittima sei d' un nobil sentimento!
Tu se' genio di guerra onnipotente !
Folgor tremenda, che disperde i Troni !
Dell' alma tua la mäestà s' estolle
Sui splendidi trofei di Sparta e Roma.
Il superbo tuo braccio offusca tutte
Di que' grandi le gesta sfavillanti.
Cha Leönida vai, che val mai Scèvola,
Quando Miloscio a paragon si pone?
Il braccio tuo con un fendente il trono
Sfracella, e fa tremar 1' atre caverne. —
Miloš cadea, stupor de' cavalieri,
Vittima al trono del flagello umano!
Altero giace il gradde capitano,
Sotto al gorgoglio di sì nobil sangue,
Qual poc' anzi incedeva, entusiastato
D'un sublime pensier, col gonfio petto,
Fra mezzo alle selvaggie orde guerresche,
Cogli occhi divorandole infuocati!
Ei giace altero qual correa poc' anzi
Al sacro avel dell' immortale vita,
L' umana vanità, la trama iniqua
Della stolta congrega disprezzando!
Il ciel benigno si sdegnò co' Serbi !
Terribil' idra a stritolar sorgea
La Serbia, i calunniati e la calunnia.
Sopra i rottami del possente Impero
Sfolgorò 1' innocenza di Miloscio.
D' eterno alloro si fregiar le chiome
Di Miloscio gli impavidi compagni,
E la vaga di Iugo inclita prole.
Al serbico vessil si spense il nome !
I lëoni divennero aratori:
Apostataro i timidi e gl' ingordi;
Li consumi di lebbra il serbo latte!
Quei che scampâr dal mussulmano acciaro
E calpesta la fè non han degli avi,
Que' che di ceppi non lasciarsi avvincere
Su queste si raccolsero montagne
A gemer sempre, a spargere 1' estreme
Goccie di sangue, a conservare il sacro
Deposito de' prodi, il nome illustre,
La santa libertade. Ah quanti capi
Eletti, quanta gioventù brillante
Quai stelle, che finor diedero i monti
Nostri, in cruenti ohimè! caddero pugne,
Caddero per 1' onor, pel nome illustre
E per la libertà. Delle divine
Gusle i söavi accordi hanno asciugato
Il nostro pianto. Oh sieno benedetti
I tanti nostri sagrifizi, quando
Il forte nostro suolo è già sepolcro
Insatollabil delle forze turche!
Che mai vuol dir che le montagne nostre
Da lungo tempo ammutolir, nè grida
Eroiche s' odon più eccheggiar ? I nostri
Acciari irruginiro. E senza duce
Restammo; all' infedel puzzano i monti;
Le pecorelle pascono coi lupi!
Il Montenero si al1ëò coi Turchi!
Sulla pianura di Cetinje il turco
Hogia grida! il fetor nelle midolle
Colpì il lëon! Si spense il nome illustre
Montenerin, nè vi restò cristiano!

***

Vengono a quella ragunanza gli Ozrinić, e narrano di aver raccolti trenta de' loro compagni, di esser discesi a Duga di Nikšić, di avere incontrato de' Turchi, ammazzatine 14, fatti parecchi prigionieri, e presi de' cavalli, e di essere stati invitati dai Turchi ad un convegno pel riscatto de' prigioni, con ciò giustificando il ritardo.

Il conte Janko racconta d' una zuffa fra i Montenerini e i rinnegati, dicendo essersi sei bare approntate pe' lor patriotti, e nove pei Turchi. Sopraggiunge Tommaso Martinović e giustifica egli pure il ritardo per essersi opposto al ratto d' una femmina di nome Rosa Kosanova, e per aver ucciso i due rapitori A1ić, e la rapita Rosa.

Il Vladika vide che tutti erano raccolti ed uscì.

Vuk Mičunović rimproccia al Vladika il dubbio sul risultato della lotta.

Il Vladika si giustifica accennando di non temer il nemico, ma i rinnegati (poturice), i quali, avendo molte aderenze nelle tribù montenerine, potrebbero essere difesi dai propri fratelli, rimasti cristiani. Del che egli ha grande timore. A ciò gli risponde il fratello conte Rade rimbrottandolo, ed eccitandolo a farsi cuore, e a dar 1' ultimo colpo, finchè il tempo è così propizio.

La scena si rappresenta a Cetinje; i capi si ritirano, e il popolo raccolto al focolare sull' aja grande, canta il seguente:

KOLO.

Labbro non bebbe ancor tazza di mele,
Senz' averne beüta una seconda
D'amarissimo fiel. Tazza d' amaro
Chiede tazza di dolce; e se mesciute,
Son pià facili a ber !
Duca Giovanni,
Stirpe d' eroi ! come leön co' Turchi
E' battagliava per le sue montagne
Insanguinate. I barbari nimici
Mezzo il retaggio gli usurpâr, ma pria
Un torrente vi sparsero di sangue.
Il suo fratello, il condottiere Uroscio,
Terribil draco, in quelle pugne cadde! (4)
Di Gemóva (5) sul campo insanguinato
Piagne Giovanni i' unico fratello:
Più d' Uroscio gli duol che se perduti
ell' ardue zuffe ambo i suoi figli avesse (6).
Più ci' Uroscio gli duol che le fiorenti
Terre perdute (7). Più gli duol d'Uroscio
Che se perdute le pupille avesse;
Le sue pupille pci fra tel darebbe
Spesso avvien che propizio il ciel ci' un prode
Assecondi l'ardjr. Brindò Giovanni
Alla vendetta con la tazza calma
Di bevanda da Dio santificata;
Il bianco crin per gli omeri disciolse,
La bianca gli scendea barba sul petto;
Vecchie le mani; lancia e brando in esse;
Ed armi e mani son di sangue tinte.
Novera a passi i mussulmani corpi!
Come destro garzon balza il vecchiardo !
Dio buono, forse un lusinghiero sogno
L' inganna, ond' egli sì festoso muove ?
A lui I' antica si destò fortuna!
Di dieci e cinque mila turchi vivo
Nessun restò nella Cermnica. Ànch' oggi
Veggonsi i marmi della gloria insigne
Del duca Cernoevo. Il ciel perdoni
All' anima d' Uroscio! Ostia sì bella
No, non mertava così reo destino

***

Il Vladika parla come fosse solo, affermando ahe ogni uomo debbe avere una patria, una nazionalità, una fede, che non osa mutare, ma riposarvi come il granello, ove ha germogliato.

L' autore mette nella bocca del Vladika parole, che mirano a giustificarlo, in qualche modo, dell', eccidio prestabilito de' rinnegati.

Poi scosso, come da sonno, il Vladika esclama: “Batta per la croce, per 1' onor di prodi chiunque è cinto di lucenti armi, e sente nel petto il cuore! Battezziamo coll' acqua, o col sangue 1' oltraggiator del nome di Cristo! Purghiamo nell' ovile la lebbra; echeggi la canzone di sangue! Il vero altare sul sasso insanguinato!”

Soggiunge egli però essere suo desiderio che sieno chiamati gli apostati fratelli ad un convegno per consigliarli a far ritorno all'avita fede.

Si mandano tre, quattro compagni, perchè invitino ad un convegno i capi musulmani. Vi si frammezza il seguente:

KOLO.

Acerba imprecazion sul travïato
Cadde: la madre di Gian-beg duchessa,
Maledì dall'ambascia il figlio suo!
Maledetto ha Maria suo figlio Stanko! (8)
Ei la mammella nel succhiar le morse,
Nel sen si sparse il nettare celeste.
Il materno imprecar raggiugne i figli!
Stanko annerita ha 1' anima; di Cristo
Spregiò la fè, spregiò la stirpe illustre
De' Cernöevo: apostatò l'infame,
E di sangue fraterno è sitibondo!
S' ode un orrendo romorio sul campo
Lïesko; ardenti per la fè s' azzuffano
Due fratelli, e guerrier mille con essi.
Il materno imprecar raggiunse il figlio!
Tutta 1' armata gli perì. Staniša
A Bajazette fugge, onde con esso
Le predate ingolar maggiari spoglie !
O de' liberi eroi nido diletto !
Sovente Iddio ti riguardò pietoso
Molti dolori tu soffristi! molte
Ghirlande al valor tuo sono serbate !

***

Vi giunsero otto capi turchi e si collocarono un dopo l'altro presso i Montenerini.

Alla parlata del Kadi Medović risponde il Vladika dimostrando eloquentemente non potersi ritenere colpevoli i rinnegati, perchè sedotti all' apostasia, alcuni con prepotenza, altri con inganno, come 1' aquila per ingordigia e la volpe con astuzia acchiappano gli uccelli; ritiene quindi per fermo che ritornerebbe la pace e 1' allegrezza nel Montenero, quando i rinnegati si convertissero. E conchiude: “L' anima mia sarebbe allora tranquilla, come un tranquillo mattino di primavera, quando tacciono i venti e le torbide nubi nell' atmosfera. Ai quali detti eloquenti aggiunge il Vojvoda Batrić, “ non può far lega il Bairam col Natale! Non è così Montenerini?”

E il popolo rispondeva: così, così, e non altrimenti.

Avendo il Kadi Mustaj pronunziato parole offensive, ne sta per iscoppiar rissa; ma i vecchiardi vi si frappongono, e intanto fra lo schiamazzo dei Turchi e de' Montenerini va cantandosi un Kolo in cui si celebra il coraggio di tre serdari, e di due vojvodi co' loro trenta prodi, e del valoroso Bajo, co' suoi trenta draghi (la cui memoria vivrà, finchè dura il mondo), che attesero il vezire Sendjer sulle alture del monte Vertijelk, e si azzuffarono mezza una giornata estiva, finchè l'esercito di Sendjer fu messo in piena rotta.

***

Il nuovo vezire della Bosnia manda dieci araldi con una lettera burbanzosa al Vladika ed ai vecchiardi, con ordine di sottomettersi. Eccone tradotta la lettera.

Lettera del Vezir Selim al Vladika e ai capi del Montenero.

Selim vezir, servo al servo del Santo !
Servo al fratello del fulgente Sole,
Ma ambasciator di tutta la sua terra,
Manda dicendo a Voi, Duci e Vladika:
Lo Zar de' Zari m' ordinò che tutte
Le sue regioni visiti e provegga
Che le sue leggi sien tenute ovunque;
I lupi non satollinsi di carne,
Alle pascenti pecore la lana
Non sia svelta dai vepri in sulla via;
Tondasi ciò che di soverchio crebbe;
Si riversi il superfluo, e si rivegga
Alla crescente gioventude i denti;
Non perisca la rosa entro le spine;
Nel mondezzajo la lucente perla
Non si consumi. — Il morso un po' si freni
Al Raja, ch' è una vil torma di Zebe.
Poi mi venne sentor de' monti vostri.
La stirpe del Profeta alma conosce
Il vero pregio del valor. — Menzogna
Ell' è del volgo che il lëon paventi
Anche d' un topicello. Or su venite
Sotto la tenda mia, Vladika e Voi
Duci del Montenero ! Al Zar possente
Mostrate sol d' accogliere i miei doni;
Tranquilli poi, come finor, vivete.
Aguzzo dente spezza anche la dura
Noce. — La spada d' affilata tempra
Recide il buzdovano, e ad un capuccio
Non potrà forse dispiccar la testa ?
Che mai sarebbe disvezzar le canne
A non chinarsi a Orkano ? (9) E chi potrebbe
Fermar un rivo dal suo corso al mare?
Chi dall' ombra celeste esce del grande
Terribile vessillo del profeta,
Come säetta, abbrustirallo il sole!
Non si protrae col pugno la speranza!
Non è infelice nella zucca il sorcio?
Folle chi rode il morso, e i denti spezza
Pregio non ha senza säette il cielo
Spiran gli occhi del vil servo ebetismo
Il popolaccio, questa mandra vile,
L'indole ha buona, finchè a lui rompendo
Si van le coste ! Per la terra guai
Su cui passa 1' armata.

***

In nome di tutti, il Vladika risponde con alterigia al Vezire, rifiutando espressamente ubbidienza.

Poco dopo, fattasi notte, rischiarata dalla luna, alcuni si assidono al focolare, e gli altri danzano cantando il seguente Kolo sopra Castelnuovo:

KOLO.

Sulla sponda del mar ti stai seduto,
O Castel Nuovo; e ad una ad una 1' onde
Vai noverando per 1' immenso mare,
Come vecchiardo, che, ad un sasso assiso,
Conta i granelli della stia corona!
Oh qual sognasti allor celeste sogno!
Il veneto Lëon dal mar t'assalse,
Ti recinse da terra il Montenero—
Fra le rocche tue forti ambo s' uniro,
E t' asperser di sangue e d' onda sacra !
D' allor non puzzi della turca peste!
Topal-Pascià con venti mila brandi
Corse in aïta frettoloso. I prodi
Montenerini lo scontrar sul campo
Augusto di Kamèno, e qui la turca
Gloria perdette il suo nome tremendo !
Tutt' affondossi in una tomba; anch' oggi
Sparso quel campo tu vedrai d' ossame (10).

***

È notte fitta, tutto dorme, alcuni parlano nel sonno. Si alzano i Knezi Janko e Rogan per vedere chi sia, ed ascoltano Vuk Mandušić parlare come in veglia; parla egli d'una sposa, di 18 anni, piui bella della vila, che gli ha rubato il cuore. “ Se non fossi stato sette volte compare col bano Milonjić, gli avrei rapito la giovane nuora e sarei fuggito con lei pel mondo. Quando la vidi sorridere, perdetti il senno. Il demonio una sera mi spinse all'abituro del bano Milonjić, quando all' aurora, (e la notte era rischiarata dalla luna) arde il fuoco in mezzo al prato; ed ella vi venne non saprei da che parte, sedette presso il fuoco per riscaldarsi, e, sentendo che tutto dormiva, sciolse le treccie; la chioma le cade sotto la cintura, incomincia a pettinarla. Poi con gentile voce si mise a piangere cantando come usignuolo dalle fronde d' una quercia. Ella piange il cognato Andrea, diletto figlio del bano Milonjić, che le venne ucciso dai Turchi nella insanguinata Duga. Non permise alla nuora di tagliarsi le treccie. Gli dolse perdere la chioma della nuora più che la testa del figlio Andrea. Si affanna la giovanetta; si morde nel cuore. Le ardono gli occhi più vivi della fiamma; la fronte è a lei più bella della luna. Ed io pur piango come un fanciulletto. Felice Andrea ch' è perito Divini gli occhi, che il piansero, divine le labbra, che io commiserarono ! “

Frattanto i turchi se ne vanno disgustati. Aggiorna, e i conti Janko, Boiko e Rogon si spiegano vicendevolmente gli avuti sogni sopra vittorie riportate sui Turchi.

***

Dopociò il Vojvoda Draško parla ai Montenerini del governo di Venezia, e racconta di esser stato qualche giorno a Venezia, facendo cenno ai suoi rozzi compagni de' teatri , de' giuochi veduti, ed essi, pieni di meraviglia, l'ascoltano. Eccone tradotti alcuni squarci:

Il Vojvoda Drasko.

Eran giuochi, o una cosa somigliante.
Quando cala la notte, in una casa
Si radunano tutti. Era quel luogo
Capace assai; cento facelle e cento
Ardean là dentro; le pareti intorno,
Intagliate di buchi, erano fitte
Di gente, e tutta se n' empiea la casa.
D' ogni parte veder poteasi come
Da lì spiavan, somiglianti a sorci
Fuori del nido. A un tratto alzasi un velo,
E la terza s' apria parte del luogo.
O grande Iddio ! miracoli a vedersi!
Strana una gente vi ci sbuca d' entro,
Anco ne' sogni mai più vista. Tutti,
VarIopinti quai silvestri gatti
Si danno a gracidar, ed ecco un forte
asce batter di mani. Ah ! per le risa
Poco mancò che non cadessi a terra
Nè molto stette che partiansi i primi,
E nuovi quindi ne venian. Fratelli,
Cotant' orror, tanta stoltezza io credo
Non si vedesser mai. Lunghi una spanna
Aveano i nasi; s' innarcar le ciglia,
Come vitelli; qual lupo digiuno
Schiusa la bocca, ed innestate a' piedi
Gambe di legno, a zoccolar si diero.
Poi de' cenci vestiansi variopinti.
Se a mezzo giorno li scontrasse un uomo,
Irto d' orror gli si farebbe il crine.
Quand' ecco da que' buchi odesi un grido:
Su, via scappate, s'incendiò la casa.
Buon Dio ! se voi sentiste. Ululi e fischi
Ne rintronano e grida disperate!
Quinci e quindi vedea cader taschetti
A cento a cento, e calpestarli i piedi.
Fiatar non puoi che tutto urta e si stringe
Come greggi che inseguono le fiere...
In sul doman mi vi recai di nuovo.
Ma niuno al mondo; e chiusa era la casa.
Vi conterò, fratelli, ancor quest'una,
Quantunque fede non mi diate. Un giorno
A Venezia vid' io strana una gente
Sulle corde menar carole e giuochi.

Rogano.

Non può credersi, o Draško; i malïardi
T' avranno certo abbarbagliato.

( Chiede alcuno, se ci sia fede tra quella gente ).

Drasko.

Altro non v' ha timor che degli sgherriž
E delle spie; ne trema ogni persona.
Quando parlano due per la contrada,
L' altro intende I' orecchio, e tosto corre
Su nel palazzo a spiattellarvi tutto,
Aggrandendo qualcosa ed abbellendo.
Si catturan que' due, poi sui tormenti,
E in galera. Non v' ha quivi più fede.
Quanto è grande Venezia, io ben cred' io
Persona non ci sia che degli sgherri
E delle occulte non paventi spie.
Raccontavami un giorno il mio compagno,
Che gli spïoni, e gli esecrati birri
Accusassero un doge innanzi a tutto
Il popolo e senato; e che la testa
Gli fu spiccata sull' istessa soglia
Del suo palazzo. Or come vuoi, fratello,
Che non si tema, se lo stesso doge
Accusato ne fu ? ….

***

I Montenerini intanto tagliano gli arrosti, e mettonsi a mensa; il serdaro Janko chiede di chi sia il capro. Gli si risponde di Martino Braica. Ed egli, dopo averne esaminata la scapola, esclama: Felice padre! il tuo capro porta una meravigliosa iscrizione sull'avvenire glorioso della tua famiglia.

Indi tutti guardano un' altra scapola, e fanno meraviglia com' essa sia. Chieggono da qual capro provenga, e si risponde essere del capro Skender Aga-Medović.

E il Knez Rogan dice: mille scapole ho rovistate, ma non ho mai veduto simile disgrazia; la casa, da cui viene questa scapola, che io guardo, si estinguerà tutta; in essa non si udrà cantar gallo; e nel mezzo della scapola havvi un vuoto, come fosse bucata con la subbia; sopra vi veggo dodici sepolcri, e tutt' i dodici morti nella sua stirpe.

Ma Vuk Mìčunović si ride de'suoi compagni, ed esclama: “ Che andate cianciando, come le fattucchiere, o come le nonne, che vanno indovinando sulla fava ? Può egli mai sapere il morto ossame che possa a taluno accadere ? “

Ma la logica ha un bel parlare, essa non distruggerà mai gi' istinti.

***

Poi Vuk Lješevostupac fa la seguente splendida descrizione della battaglia di Cevo, cantando sulle gusle.

Canto sopra Cevo (11).

Salve culla d'eroi, Cevo famosa!
Tu di battaglie sanguinosa arena!
Quante tu non rimembri orride pugne
Quante di figli non orbasti madri!
D' umane rìcoperta ossa tu sei;
Tu sei briaca di guerriero sangue!
Dal dì funeste di San Vito (12), nutri
Della carne di prodi e di cavalli
Sempre i lupi ed i corvi! Orrendo allora
Era a vederti: nero fumo avvolta
Tutta t' avea — da cento mila osmani
Assalita tu fosti : udiansi intorno
Mille e mille tuonar bocche di morte,
Voci alte e fioche di guerrier pugnanti,
Framisti al crocidio d' avidi corvi
Che a stormi a stormi vi scendeano. Il sole
Rifulse dopo le tenebre. A sera
Il ciel rasserenò. Sopra il tuo campo
I morti Osmani a noverar ci femmo.
Ma nel novero mai fummo concordi.

***

Si vede, in questo, passare un corteo nuziale ottomano, a cui prendono parte molti invitati Montenerini. Il Kadia Mustaj prega i giovani di non cantar certe canzoni presso 1' adunanza dei Montenerini, per non recar dispiacere ai capi; ma li consiglia. di cantar canzoni nuziali, ed egli stesso canta la seguente, con cui consola una povera madre, che credea morta la propria figlia, e ne dipinge così la bellezza:

La bella Fatima.

Non pianger, madre, la gentil Fatima!
Sposata è a Sulio, non morì ! Caduta
Non è la rosa dal suo cespo verde,
Ma nel suo bel giardino è trapiantata.
Sulio terrà la tua Fatima, come
Le sue pupille in fronte. Assai leggiadra
Ha la persona — son due stelle gli occhi,
Il suo sembiante un limpido mattino,
L' astro d'amore sotto al serto brilla,
Tagliata col parà (13) sembra la bocca,
E tinte in rosa le melliflue labbra,
Fra cui talvolta biancheggiar si vede
Nivea corona di sottili perle,
Terso avorio n' è il collo, e le sue mani
Biancheggianti siccome ali di cigno!
La stella del mattin nuota sui fiori.
E li remi la guidano d' argento !
Beato il letto sopra cui riposi !

***

I Montenerini cominciano a deridere i Turchi, ed è per nascere un' atroce zuffa, ma i vecchiardi vi si oppongono, e la evitano.

Dall' altra parte s' ode una fanciulla desolata piangere la morte di un suo fratello amatissimo, Batrić, ucciso a tradimento da' Turchi, e tanta si è la mestizia di quel canto che la si può senz' altro paragonare al pianto di Andromaca sopra Ettore nell' Iliade.

***

Meglio di 400 Montenerini giungono all' adunanza, e consegnano all' autorità una scritta vergata dal pop Mićo. Il Vladika e lo stesso pop non la sanno leggere. Chiesto pop Mićo che tentasse di leggerla, risponde: “ affè mia ! io non so leggerla; il libro non mi è necessario, nè in chiesa leggo; mi sono ben fitti in mente la liturgia, il battesimo, e lo sposalizio, come le altre più minute necessità. E quando ne ho di bisogno, lo dico a mente, come una canzone “. D' onde sogghigni e frizzi. Poco dopo un montenerino conduce una vecchia strega., che, interpellata dal conte Janko in qual modo si divenga strega, rispose; “ abbiamo certa erba, la cuciniamo nella pentola, ci ungiamo per turno, e così diveniamo streghe “.

Interrogata che facciano poi, soggiunge: “ ci raccogliamo sopra un' aja di bronzo sconosciuta da tutti, sopra un subbio di mirto cavalchiamo; teniamo i nostri convegni nascosi per recar male a qualcuno; ci mutiamo in qualsivoglia animale; voghiamo con remi d'argento; la barchetta c'è un guscio d'uovo. Al tristo non possiamo far male, ma lo possiamo ai nostri cari e parenti “.

Il Vladika Danilo la riprende acremente dicendo non esistervi streghe, ma essere queste favole di nonne; mente questa vecchiaccia; ma può darsi che gatta ci covi.

Però correndo ella pericolo di essere lapidata, confessa il motivo della sua comparsa, essere cioè stata mandata dai Turchi per far nascere de' torbidi fra i Montenerini.

Nell' udir ciò, balza in piedi tutto il popolo, dà di piglio a' sassi per lapidarla, ma nol permettono i capi e con istento la difendono.

Dispersisi tutti, rimasero alquanti capi a Cetinje per stabilire meglio il lor convegno.

Si ottenebra; i capi siedono intorno al fuoco, si vede l'eclissi, sentesi un tremuoto.

In questo viene fra loro il cieco e vecchio igumano, tenuto da essi in concetto di santità.

Cerca egli con infuocati discorsi di ridestare 1' odio de' Montenerini contro i Turchi, accertando che il cielo condonerà lo sterminio dei rinnegati, per avere eglino con ogni scelleratezza oltraggiato e deriso il santo altare.

Fatta notte, s' addormentarono tutti, 1' igumano Stefano siede al fuoco, va noverando il suo rosario, e tutta la notte recita preghiere.

All' albeggiare, s' alzano, cingonsi le armi e fermano tra loro di emanciparsi dal Turco e discacciarlo dal Montenero.

***

Il Serdaro Vukota pronuncia al popolo, raccolto in chiesa, un terribile giuramento contro i traditori, che viene accettato e confermato solennemente dalla folla raccolta con la parola Amen. Eccolo tradotto:

Giuramento.

Montenerini, ben tenete in mente
Sarà il più degno chi comincia il primo;
Al traditor di chi a pugnar s' accigne,
Ogni cosa nel mondo gI' impietrisca !
Iddio possente gl' impietrisca il seme
Ne' colti campi ! della cara donna
Nel sen la prole gl' impietrisca e muoja,
Da lui nascano i nani, e tutti a dito
Li mostrino — sua razza empia si spenga,
Siccome quella de' destrier screziati.
Dal suo tetto non pendano i fucili
Teneri ancora muojano i suoi maschi!
Chi tradisce, o fratelli, eroi sì illustri,
Che accingonsi a pugnar contro gli Osmani,
Di Branković leterna onta 1' incolga!
Sua tomba s' inabissi in questo mondo !
Chi tradisce, o fratelli, eroi sì illustri,
Nè pan, nè vino possa offrire a Dio!
Nella fede de' cani abbia credenza!
Gli ardenti ciocchi di Natal cospersi
Gli sien di sangue ! festeggiar e' possa
Il suo giorno onomastico nel sangue!
Sul ciocco i figli mangisi arrostiti !
Un furioso turbine lo colga,
E 1' aspetto di pazzo egli ritragga!
Chi tradisce, o fratelli, eroi sì illustri,
Sopra la casa ogni malor gli piombi !
Alla sua bara menino lamenti
Le prefiche, ma sia tutto menzogna!

***

Compiuto il giuramento, porgono al vecchio Igumano un bicchiere di vino; e' brinda ai ciocchi, e, confortatosi, prende la gusla e canta:

Igumano Stefano.

Tutto provai — sì, questo brutto mondo
Sperimentai. Fino l'estrema goccia
Del suo fiele ho succhiata. Oh! con la vita
M' ho d' amarezze conosciuto assai —
Di quel che nasce, e nascer può, nascoso
No, non m' è nulla. Rassegnato io sono
A tutto quel che m' accadrà — che tutti
Sotto al cielo i malor sono retaggio
Del mortal sulla terra. — O mio Vladika,
Fresco e inesperto ancor tu sei ! Le prime
Goccie di fiele della coppa al labbro
Son le più amare ed aspre. Ah se a te fia
Dato saper quanto t' attende ancora ! —
Se tiranno al tiranno è questo mondo,
A un' anima gentil non sarà forse
D' infernali discordie egli è ricetto!
Pugna 1' anima in lui col corpo. Pugna
L' onda col lito — in lui continuo pugna
Col caldo il gel — venti con venti — belva
Pugna con belva — in lui pugna una gente
Con altra gente — l'uom pugna con l'uomo,
Notte pugna col dì — col ciel gli spirti
Sotto la forza spiritale geme
Il corpo, e 1' alma s' agita nel corpo.
Irato geme il mar sotto la forza
Del cielo, e il ciel sconvolgesi nel mare.
L' onda furiosa incalza 1' onda, ed ambe
Si frangono sul lito gemebonde.
Niuno è felice, e niun contento. — L'uomo
Sempre dell' uom deridesi. La scimmia
Guata sè nello specchio ……

***

Si sente il tuonar de' fucili lungo la campagna. Il Vladika monta il suo cavallo arabo, ed esce.

Veggonsi lungo la campagna da 500 a 600 armati, i quali gli si raccolgono d'attorno. Veduti cinque Martinović, Vuk Borilović, e i tre suoi servi tutto insanguinati, il Vladika chiese loro raccontassero l'avvenuto.

Il Vojvoda Botrić risponde: sono liete novelle; o Signore; felicitiamo anzi tutto il Natale a te e al Montenero. Noi cinque fratelli Martinović, e tre fidi tuoi servi col prode Vuk Borilović ci azzuffammo jer sera coi Turchi; accorsero a noi quanti sentirono; si raccolsero armati come onde. Chi non volle segnarsi con la croce, lo mettemmo a fil di spada, e chi si segnò, lo accogliemmo qual fratello. Incendiammo tutte le case ottomane, talchè non ne rimase traccia. Da Cetinje ci portammo a Ceklić; i Turchi di Ceklić si dispersero. Pochi ne uccidemmo; ma abbruciammo le lor torri (Kule) e le moschee, di cui facemmo una macerie affinchè serva di vergognoso ricordo.

Il Vladika scende dal cavallo, bacia ed abbraccia que' prodi. Poi si comunica chi era digiuno, e, dopo, si mangiano di capri arrosti; la gioventù fa svariati giuochi, e si canta il seguente:

KOLO.

Nera una nube già velava il Sole;
Copriasi il monte dalla nebbia. Fioca
In sull' altar la lampada piangea,
Sopra le gusle si spezzar le corde.
Nelle spelonche ascosersi le vile,
Dalla lana e dal sole impaurite.
Si raffreddaro i maschi petti: in essi
Si spense libertà, come sul monte
Vanno i raggi morendo, allorchè il sole
Nel pelago s' affonde interminato.
O Dio pietoso che solenne giorno!
Come quest' oggi sul Cetina lieti
Svolazzano de' nostri avi gli spirti,
E ìn bianchi stormi intrecciano carole,
Pari agli stormi di candidi cigni
Nel sereno scherzanti aere sull' onde
Chiare del lago... Ei son cinque guerrieri;
Cinque figlioli di Martin, che il latte
Da una stessa succhiar mamma, e la stessa
Cuna cunò...! Poi veggonsi i due forti
Novaki coil' alfier Pimone, e il prode
Vuk di Borilo, che gittarsi i primi
Sui Turchi! Chi sapria serti intrecciarvi ?
Pegno immortale delle vostre gesta
E Montenero e la franchigia sua!

***

La notte del Natale e il giorno seguente scoppia la rivolta in ogni parte del Montenero.

Giunge un giovane al Vladika, che si annunzia apportatore di uno scritto del Serdaro Janko da Rijeka, e racconta: appena sentito della strage dei Turchi a Cetinje, il Serdaro Janko manda due giovani agli ottomani di Rijeka dicendo: “ chi non sputa sul Corano, salvi, senza indugio, la testa “.

Adescò due giovani turchi, e li appiccò tutti e due a Obod. Intanto il Serdaro diede 1' avviso a que' della Nahija; tutti accorsero alla città di Rijeka; ma indarno, chè i Turchi fuggirono nelle barche alla volta di Scutari. Bogdan Gjurašković uccise il Kadi di Rijeka. Vi si atterrarono tutte le torri, e moschee turche.

Venutovi un chierico, prende la lettera e legge: Il conte Nicola e tutt' i Dupiljani salutano il nostro Vladika. Appena sentimmo ciò che avvenne a Cetinje, ci accapigliarnmo coi nostri Turchi. Un giorno ed una notte durò la lotta, fu piena la Cermnica di Turchi, di condottieri, e di agà. Pochi accorsero in nostro ajuto. E de' nostri perirono; metà nella lotta soccombemmo, non rimase tomba attorno la Chiesa. Ammazzammo i Turchi per la Cermnica, ed eguagliammo al suolo la città di Besaz, ed ora non ti rimase traccia de' Turchi fuor delle rovine.

***

Si lascia infine entrare Vuko Mandušić, il quale racconta essere venuta da Štitar una fanciulla, col grido: “ ecco a Štitar i gabellieri per la riscossione de' tributi “. Raccolti cinquanta de' nostri giovani, corsi sotto Štitar con essi; poi tagliammo a pezzi i turchi divoratori, accorremmo alla torre di Radun; venti rinnegati, feroci Albanesi, assaltarono la insanguinata Kula (torre) di Radun. Solo Radun si era ricovrato nella Kula, e con lui sua moglie Ljubica, vera eroina. Carica ella i fucili al suo Signore. Radun mira dal verona della sua Kula, e sette ne fulmina sullo steccato.

Ma e' fu in grave pericolo; i Turchi accumularono attorno la Kula paglia e fieno, e li accesero da ogni parte. La fiamma s'alzò nell'acre, e già avea raggiunta la Kula; ma egli non cessa di mirare col fucile, canta allegramente le gesta dei prodi illustri vivi e morti. Si vede dinanzi la tremenda ora. Vivi scoppiarono i nostri cuori, accorremmo alla Kula di Radim, lo liberammo, discacciandone i Turchi, e tagliandone 83 a pezzi.

Tanto ne fu lo scempio sulla pianura di Cetinje che non fu risparmiato alcuno de' nemici turchi.

Per tal guisa tutto il Montenero fu sgombro in cinque giorni dai più mortali suoi nemici, gli ottomani.

***

Il Vladika, nella divisione del suo dramma, tenne dietro agli antichi Greci, presso i quali il coro era parte d' ogni pubblica festa civile e religiosa, e la città a ciò conservava una piazza, sulla quale discendeva tutto il popoio ai tripudi de' canti e delle danze. Egli fa quindi uscire i Kolo (cori) che gareggiano con quei del Manzoni, e si cauta la poesia lirica sull' aja aperta dal popolo raccolto.

In questo suo dramma, di cui noi abbiamo dati tradotti gli squarci riportati disopra, il Vladika fa sommamente spiccare la potenza del suo genio pello stile.

Fa meraviglia che in un' azione così complicata, com' è questa, e in cui hanno parte tanti personaggi con mire e mene diverse; in cui si alternano sì molteplici combinazioni ed accidenti fra loro opposti, abbia saputo escirne con ogni desiderabile chiarezza, abbia potuto raccorne le• tante disperse fila, i tanti svariati fatti, intrecciarli e costringerli ad un' unità, che non viene punto turbata non solo nell' azione, ma neppur nel luogo e nel tempo.

Educato sulle canzoni popolari, e' vi mantiene quell' aurea semplicità, quella dolcezza, quell' ingenua leggiadria, accoppiando tanta grazia a quell' evidenza, a quello splendore cli colorito, e a quella grandiosità di pensiero, che fanno sentire la voce di un popolo, anziché di un uomo.

Questo lavoro per la lingua, per lo stile, per lo slancio lirico de'suoi Kolo , pel sentimento nazionale, onde sono animati, pella splendida pittura de' costumi, delle abitudini, delle virtù, de' vizï, delle superstizioni, della religione, e del fanatismo de' Montenerini, per le similitudini così poetiche, e delineate con impareggiabile naturalezza, purezza e verità, per l'agglomerazione d'una moltitudine d' incidenze, nelle quali si narrano delle crudeltà, delle vessazioni, e delle ingiustizie degli Osmani contro i Montenerini, e per le disposizioni delle parti, questo lavoro, io diceva, è di tanta eccellenza, che basta solo a renderne immortale il nome dell' autore. Gli è perciò che il Gorski Vijenac rimarrà senza dubbio un lavoro inapprezzabile della letteratura tra gli slavi meridionali.

Ci piace da ultimo convalidare la nostra opinione col seguente giudizio, che l'immortale nostro Tommasèo fa del Gorski Vijenac nell' Appendice del 27 Ottobre 1847, N.° 129 dell' Osservatore Triestino:

“ Laddove egli dipinge le cose a lui meglio note, laddove s' astiene dalla rettorica de' libri, e si accosta ai linguaggio de'suoi montanari , quivi l'autore è poeta, e i suoi versi saranno testi di lingua “.

***

Inoltre raccolse e pubblicò il Vladika nel suo Ogledalo Sèrbsko (specchio serbo) le migliori canzoni popolari eroiche del Montenero, dichiarando però che tali canzoni non sono nè la decima parte de' canti popolari di quel paese.

I Montenerini non hanno, come gli antichi Scandinavi, scolpita in lettere runiche la lor storia sulle pietre del loro suolo; essi non 1' hanno scritta, come gli Egizi e i Greci sui lor monumenti; non hanno avuto, come l' Italia e la Francia, delle comunità di religiosi, i quali, nel silenzio dei chiostri, componevano pazientemente le loro cronache. Ma eglino l'hanno conservata nei canti popolari (pjesme), che raccontano i loro giorni di dolore, i giorni di trionfo. I loro canti sono i loro annali, che, nati dal popolo, vivono e si tramandano inalterati da generazione in generazione.

Questa stirpe slava, generalmente è ricca di canzoni, ma tutt' i lor canti hanno una speciale impronta di gravità e di melanconia.

Chi ha udito intuonare queste canzoni in placide notti, al chiarore della luna, e nelle valli solitarie, avrà sentito la potente impressione che producono.

  1. Il distinto scrittore slavo signor Stefano cav. Ljubiša ha pubblicato il Gorski Vijenac dall' alfabeto serbo nell' alfabeto croato, aggiungendovi interessanti note.
  2. Il dì 15 Giugno 1389 fa recisa sul campo di Kosovo la vita della naziene Serba. Quel giorno fatale divenne festivo al popolo Serbo di trista solennità.
    Lazzaro, re de' Serbi, aveva due generi, Vuk Branković, e Miloš Obilić, entrambi bravi e distinti guerrieri. Miloš però era più amato di Vuk dal popolo, e da ciò il rancore di Vuk verso Miloš.
    Vuk accusò Miloš che avrebbe tradito il suo re. Di ciò offeso Miloš, penetrò nel campo fra i soldati ottomani, e, giunto alla persona del Sultano, gl'immerse il pugnale nel ventre e lo freddò.
    Si sgominarono i Turchi da cotanto ardire. Speravasi che 1' armata Serba , eh' era stata condotta da Lazzaro contro Ammuratte, si sarebbe rianimata al1' udire tale nuova.
    Ma i Serbi, non veggendo Miloš, sospettarono c' egli avesse tradito. Miloš invece veniva legato e tagliato crudelmente a pezzi coi prodi suoi compagni Milano Toplica, ed Ivan Kosančić.
    Nel momento più decisivo della pugna, Vuk Brankovié ritirava la sua gente; fatto questo, che scoraggiò 1' armata Serba, la quale si dava alla fuga. Vi perirono Lazzaro, e i più coraggiosi suoi compagni. come gi si disse nella prefazione ai canti del popolo slavo.
    Miloš, morendo, lasciò memoria eterna di sè, e delle sue magnanime gesta. Se ne narra e celebra la memoria, e la memoria, ch' è scintilla della speranza, si tiene viva, e si terrà finchè sonvi uomini, e finchè è Kosovo.
    A rincontro le canzoni popolari serbe, parlando di Vuk Branković, maledicono lui, e chi lo fece, la sua razza, e i suoi figliuoli, per avere egli tradito il Sire in Kosovo, e via menato dodici migliaia di cavalieri potenti. ( Nota del Trad. ).
  3. L' imperatore Dušan, pria di morire, fe' giurare ai magnati di ubbidire a suo figlio Uroš, ch' e' nominava a proprio successore.
    Ma essi negarono ad Uroš la giurata ubbidienza, usurpandogli tutte le provincie.
    Il Woyvoda della Macedonia, e dell'Acarnania fu il primo a sollevare queste provincie contro 1' autorità di Uroš.
    Il quadro straziante che ci offrono i canti popolari dell' anarchia, cagionata dai magnati, dopo la morte di Dušan, ne porge un' idea molto esatta della situazione di quest' epoca.
    Primeggiano fra i sollevati Vukasino, Lazzaro Grebljanović, e Boisavo Vojnović.
    Vukasino reggeva la Macedonia e i circostanti luoghi fino a Salonicchio.
    Lazzaro governava la Mačva e il Sirmio, e Vojnović l' Ercegovina.
    Per tal guisa 1' impero Serbo restò frazionato.
    Uroš, il timido principe, dopo essere vissuto or presso uno, or presso un altro in disonorevole rifugio, venne ucciso in una caccia sul campo di Kosovo da Vukasino, il quale si bagnò per tal guisa di sangue reale. ( Nota del Trad. ).
  4. Peri Uroš combattendo contro i Turchi nel 1477.
  5. Gemovsko Polje è un campo nella Lješanska Nahija rimpetto a Podgorica.
  6. Giorgio e Staniša figli di Giovanni Cernojević; il secondo si fece turco, e fuggi presso Bajazette.
  7. Intende parlare delle terre, componenti la Zeta, che giacciono attorno il fiume Zeta, fra 1' Ercegovina l' Albania, il Montenero, e il lago di Scutari. ( Nota del Trad. ).
  8. Ivan Beg Cernoević avea sposato una figlia del doge Mocenigo, che si nomava Maria nel Montenero. Egli avea due figli Giorgio e Staniša.
    Invidioso di suo fratello Giorgio, Staniša portossi da Bajazette II, sultano di Costantinopoli, e chiese truppe turche per impossessarsi del Montenero, promettendo un perpetuo annuo tributo alla Turchia, a patto però gli si désse il governo del Montenero con Scutari per capitale. Bajazette vi annuì, purché Staniša abbracciasse il maomettanismo. Staniša accettò tale patto, apostatò, e preso il nome di Skender-beg, marciò con truppa ottomana e con alquanti suoi seguaci Montenerini all'agognata conquista del Montenero. Ma lo attese il fratello Giorgio, e ne disfece tutta 1' armata.
    Veggendo quindi frustrato il tentativo, Staniša si ritirava a Scutari, datagli per capitale; ma, rifiutato avendo gli Scutarini di riceverlo, e' si trasferì a Buašate, villaggio vicino. I discendenti di lui fecero assai male al Montenero, ed in ispecie Mamut, che peri nel 1797 a Krušame da fucile montenerino.
    Giorgio Cernojević restò quindi qual erede di Balsa III, padrone del governo montenerino. ( Nota del Trad. ).
  9. Orkano fu successore di Osmano. E'dilatò le conqoiste; insieme a suo fratello Aladino migliorò 1' amministrazione, e dettò gli statuti (Kanum) che col Corano, la Sunna, e la decisione de' quattro grandi Imani, furono per gli Ottomani il quarto fonte della ragion di Stato. Essi riguardano la moneta, il vestire, e l'armata. Riordinato 1' esercito, Orkano assalì Nicea, se ne impadronì, vi fabbricò moschee ed istituì scuole. Ebbe in isposa la figlia di Cantacuzeno. Morì trucidato. ( Nota del Trad. ).
  10. L' autore parla della memorabile presa di Castelnuovo fatta dai Veneti e Montenerini. Questo forte, eretto nel 1373 all' imboccatura del canale di Cattaro da Ivadko, re Bosnese, era divenuto nel 1686 ricovero de' corsari Turchi, che andavano infestando 1' Adriatico, ed in ispecie le coste della Romagna e Puglia. Per isnidarli da sì formidabile asilo s'unirono i principi d' Italia alla Repubblica di Venezia, e vi sbarcarono diecimila combattenti. Il presidio di Castelnuovo contava 1500 arditi albanesi e turchi. Da una parte i Veneti, i Montenerini dall' altra assaltarono i corsari, che, dopo un' accanita resistenza, capitolarono (1687). ( Nota del Trad. ).
  11. Cevo o Kčevo è situata nella parte boreale del Montenero, ed è stata sempre il baluardo di quel paese. ( Nota del Trad. ).
  12. Il giorno 15 Giugno 1539 in cui perì la Serbia a Kosovo. ( Nota del Trad. ).
  13. La più piccola moneta turca. ( Nota del Trad. ).

Canti del popolo Slavo tradotti in versi italiani con illustrazioni sulla letteratura e sui costumi slavi per Giacomo Chiudina , Volume Primo, Firenze, Coi Tipi di M. Cellini e C. alla Galileiana , 1878, pp. 83-128.

На Растку објављено: 2008-07-02
Датум последње измене: 2008-07-02 17:48:15
 

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