Giacomo Chiudina

Canti del popolo Slavo

All'Illustrissimo Signore
Francesco Conte de Borelli di Wrana
Vienna.

Mi permetta che a Lei, distintissimo signor Conte, che coll’ingegno e con le civili virtù onora la Patria nostra, intitoli questi canti, come una sincera espressione dell’affetto, della riconoscenza e stima grandissima, che io Le porto, pregandola di volerne cortesemente accogliere la rispettosa offerta.

Dalmazia, Spalato, li 2 Febbraio 1878.

Dev. Serv.

GIACOMO CHIUDINA

AL LETTORE

Il Signor Giacomo Chiudina noto nel mondo letterario per le sue bellissime traduzioni de’ Canti nazionali slavi, pubblica tradotta in versi italiani una raccolta di Canti del popolo slavo, sloveni, boemi e polacchi, con interessanti illustrazioni riguardanti cose slave.

Del pregio di queste traduzioni parlarono molti giornali italiani, ed anche autori tedeschi e francesi.

La Gazzetta di Zara del 24 Novembre l845, N. 94, discorrendo delle versioni di poesie nazionali, aggiunge quanto segue:

“Speriamo far cosa grata ai lettori della Gazzetta presentando loro la traduzione di poesie nazionali del Signor Giacomo Chiudina, di bell’ ingegno, che d’ altre versioni s’ offrì di fregiare in appresso la nostra Gazzetta”.

Nell’ Osservatore Triestino, 17 Ottobre 1847, N. 125, 1’ illustre pubblicista Signor Pacifico Dottor Valussi scriveva:

“Il nome di Pietro Petrović, Vladika del Montenero, è noto in tutta Europa ai politici, che riguardano la montagna, ov’ egli domina, come un punto avanzato della Slavia a sorti novelle avviata. Ma quest’ uomo, che regge un fiero popolo, sempre in lotta, non solo non è ignaro delle raflinatezze sociali, e delle diplomatiche avvedutezze della colta Europa, ma brilla fra i primi scrittori di sua lingua, e s’ è posto fra gli antesignani della nazione.

“Molti de’ suoi canti lirici e patriottici sono sulla bocca del popolo, perchè egli canta a gente, fra cui la poesia vive altrove che nei libri, e canta cose, in cui tutti consentono, e che eccitano la fibra popolare. Questo anno ei pubblicò a Vienna un dramma storico, che ha per soggetto I’ eman— cipazione del Montenero dal dominio ottomano, avvenuto allo scorcio del 1700. Si vede che questa è opera letteraria e politica ad un tempo; e che il Vescovo principe sa mantenere nei suoi 1’ odio alla soggezione del Turco. Questo suo dramma storico lo dicono lavoro bellissimo, e fatto al modo de’ greci, nelle cui tragedie c’ è sem pre qualche cosa di epico allato al drammatico. Gi’ intermezzi sono formati da danze con canti in coro. Questa danza chiamasi KoIo, ed è affatto caratteristica della loro nazione.

“Un colto giovane dalmata, il Signor Giacomo Chiudina, imprese a tradurre in versi italiani il dramma del Vladika del Montenero, e noi aguriamo bene della sua impresa, poichè di certo in Italia si vorrà leggere questo suo lavoro. La Dalmazia, ove le razze e le lingue slava ed italiana s’ intarsiano, si compenetrano, dev’ essere il campo sul quale vengano a conoscersi anche le due letterature. Sta ai Dalmati l’imprendere qùest’ ufficio d’ interinediari; che dall’ una all’ altra riva dell’ Adriatico le materiali ed intellettuali comunicazioni non possono che andar crescendo in avvenire, e si dovrà gratitudine agi’ iniziatori di questa opera del tempo. L’ Italia, che fece buon viso alle traduzioni del Tommaseo, del Pellegrini, ed a tutte le più recenti pubblicazioni sulle cose illiriche slave in genere, vorrà essere grata al Chiudina di questo dono, ch’ei le fa” (Segue uno squarcio della traduzione).

Il chiarissimo viaggiatore Neigebaur, nella sua opera Die Süd-Slaven, Lipsia 1851, parla:

“Il signor Giacomo Chiudina ha pubblicato in bei versi molti squarci del classico dramma del Vladika del Montenero, Goski Vijenac nonchè molte bellissime traduzioni pure in versi italiani de’ Canti popolari slavi, molti articoli interessantissimi di cose patrie”.

Il Dalmata dell’ 11 Decembre 1869 N. 99 reca quanto segue:

Nel Dizionario Estetico dell’illustre Tommaseo, pag. 934-985, stampato dai Successori Le Monnier 1867, troviamo il seguente articolo, intorno ad un recente lavoro fatto daI nostro bravo compatriotta Signor Giacomo Chiudina di Spalato, sui Canti del popolo slavo. Noi riproduciamo con piacere 1’ articolo, affinchè la gioventù nostra, istruendosi nella patria letteratura, abbandoni il falso sentiero tracciato da alcuni moderni scrittori e si attenga invece ai consigli saggi e autorevoli dei Tommaseo ed agli esempi degni di imitazione datici dall’ egregio Chiudina.

Canti del popolo Slavo tradotti dal Signor Giacomo Chiudina.

“Farà buona cosa, mi pare, il Signor Chiudina a raccogliere insieme i Canti, ch’ egli ha valenteneute tradotti, de’ varî popoli slavi, i serbici specialmente, che tuttavia anco in Dalmazia sì cantano; e gioverebbe che in tutte le parti di lei più fossero noti e cari. Quel tanto ch’ io vidi delle sue versioni, stimo che possa stare con le fatte di recente in Italia da lingua qualsiasi, e non perdere al paragone. Se l’Italia non ha poesia popolare di tanta bellezza, gli slavi, anzichè insuperbirne, debbono con sollecita ed umile cura adoperarsi a far sì che gli scritti loro, in parte almeno, tengano di quella eleganza, di quel vigore, di quella sincerità. Ma i sussidi che l’arte richiede per rendersi emula della natura, almeno per non la corrompere, gli scrittori nostri li avranno dallo studio della letteratura italiana, tra le moderne, piuttostochè da altre. Or mi rincresce vedere come lo scritto di certi slavi nella forma del costrutto arieggi ìl germanico, nelle locuzioni e nelle immagini il francese e dell’ uno e dell’ altro non segua gli esempi migliori, ma i difetti accarezzi, e quasi accolga i rifiuti. Molto si parla del1’ insegnare lo slavo, e sta bene; ma gioverebbe anche apprenderlo; apprenderlo tanto più dalla lingua del popolo, che grandi modelli ci mancano, e siamo, per felice povertà, quasi obbligati a creare una nuova letteratura, a essere originali. Ma al popolo, che taluni avvolgono in una nube d’ incenso non sempre odoroso, poco mi pare che si dia retta, a come egli parla e come sente le cose; e in quella parte di linguaggio la qual concerne gli oggetti della natura esteriore e i comuni affetti dell’ anima umana, potrebbesi dalle locuzioni offerte da lui far tesoro, perchè la ricchezza ne è grande e pura. Quanto al linguaggio della scienza e della civiltà, il riversare alla rinfusa le voci e le frasi che le altre favella della colta Europa ci danno, senza neanche curar di foggiarle a forma slava (sì che un italiano o un francese leggendo certi scritti nostri, senza saper d’ illirico può indovinare di che si ragioni), non credo che sia un degnamente onorare e amare la patria. Gli altri idiomi slavi, meglio coltivati sin qui, potrebbero ben fornire quello che al serbico manca: ma a tale lavoro è richiesta concordia di studi perseveranti. E lo spacciare per fatto quel ch’ è da farsi, non affretta i progressi della civiltà, li ritarda, imbrogliando le menti, e la mente imbrogliata imbroglia la coscienza. Ai grandi fatti politici precede sempre una preparazione morale intellettuale, e questa non può non essere graduata; e gli uomini singoli, per deboli che pajano, possono a questa cooperare. La civiltà è campo, che chiede fatica continua perchè dia frutto: non è mensa alla quale sedersi da mane a sera, e cantare tripudiando. Quello che il Signor Chiudina fa dal suo canto, faccia dal suo ciascheduno; e siccom’ egli, studiato il popaio nostro, lo dà onorevolmente a conoscere agli altri popoli, così ciascheduno lo studi con amore, e lo faccia conoscere a sè stesso in ciò che gli manca: così lo venga educando a dignità modesta e a speranza operosa”.

Nel Giornale di Zara Narodni List (Nazionale) del 4 Luglio 1877, N.° 1 leggesi quanto segue:

“Al nostro N.° d’ oggi va allegato un invito d’ associazione alla traduzione italiana dei Canti nazionali slavi, per opera del Signor Giacomo Chiudina. Sul merito della traduzione noi non possiamo che rimandare i nostri lettori alle citazioni, contenute nel1’ invito; e quando queste non vi fossero, noi crediamo che il saggio offertoci dal Signor Chiudina nelle tre canzoni allegate, basterebbe a convincere ciascuno come il traduttore sia un elegante e forbito interprete dei bellissimi canti slavi. Raccomandiamo caldamente a tutti di abbuonarsi a questa pubblicazione utilissima, e speriamo che a questo scopo si pre“ steranno anche tutti i patriotti. Sarebbe cosa ingrata se noi non corrispondessimo alle fatiche d’ un uomo, che ci fa conoscere all’ estero e che così si cattiva le simpatie delle altre nazioni, nel momento il piui decisivo per tutti gli Slavi”.

L Avvenire, giornale dalmata dell’ 11 Luglio 1877, N.° 82 scrive:

“Ci è grato annunziare una pub“ blicazione letteraria delle piìi interessanti e di palpitante attualità. Il signor notajo Giacomo Chiudina, forbito scrittore, noto già per le sue versioni dei Canti nazionali slavi, ha tradotto in versi italiani 200 Canti serbo-croati, sloveni, boemi e polacchi. Del pregio di queste traduzioni parlarono molti giornali dalmati e italiani ed anche autori tedeschi e francesi”.

Nel Cittadino di Trieste del 7 luglio 1877, N.° l9 trovasi scritto quanto appresso:

Canti slavi tradotti in italiano.

“Annunciamo una pubblicazione letteraria delle più interessanti e di palpitante attualità. Il Signor Giacomo Chiudina, forbito ed elegante scrittore, nato nel mondo letterario per le sue bellissime traduzioni dei Canti nazionali slavi, ha tradotto in versi italiani 200 Canti serbo-croati, sloveni, boemi e polacchi.

Del pregio di queste traduzioni parlano molti giornali italiani, recentemente pure Il Cittadino nel N. 103 del 2 Maggio a. c. ed anche autori tedeschi e francesi.

Ne parlò con onore la Favilla,giornale letterario di Trieste, pubblicando ancora nel 1846 in vari suoi numeri parecchie di queste poesie.

Si apre ora 1’ associazione alla completa raccolta delle traduzioni nel 1’ idioma italiano dei Canti nazionali slavi, lavoro cile è di lustro alla patria jugoslava ed all’ egregio Signor Chiudina”.

Dopo riportati gli apprezzamenti di sì autorevoli persone e giornali, noi speriamo di far cosa grata all’ Italia pubblicando questo bel lavoro del Signor Giacomo Chiudina, Notajo a Spalato, che manca fra noi, e che, riteniamo per fermo, sarà con applauso accettato.

L’ EDITORE.

 

PREFAZIONE

AI

CANTI DEL POPOLO SLAVO

“O canti del popolo slavo, dice uno de’ più grandi poeti della razza slava, voi siete arca di alleanza tra i tempi antichi ed i moderni; è in voi che una nazione depone i trofei de’ suoi eroi, la speranza de’ suoi pensieri, ed il fiore de’ suoi sentimenti! Arca santa, nessun colpo ti batte, o ti rompe, fino a tanto che il tuo stesso popolo non t’ha oltraggiata. O canzone popolare, tu sei il custode del tempio delle memorie nazionali, tu hai le ali e la voce di un arcangelo, sovente anche ne hai le armi! La fiamma divora le opere del pennello, i briganti saccheggiano i tesori, la canzone sola sfugge e sopravvive. Se le anime avvilite non la sanno nutrire di cordogli e di speranze, essa fugge nelle montagne, si attacca alle rovine, e di là ridice i tempi antichi; così l’usignolo s’ invola da una casa incendiata e poggia un istante sul tetto, ma se il tetto crolla, esso fugge nelle foreste, e con voce sonora gorgheggia un canto di lutto ai viaggiatori d’ infra le ruine ed i sepolcri”.

Lo spirito slavo, divenuto semplice spettatore al di fuori di teorie rivali, sviluppava al di dentro tutta la sua energia creatrice nella poesia de’ suoi canti nazionali.

Esso inspirava delle opere d’ un naturale ammirabile, conservava in Europa la poesia della razza, mentre tutte le altre nazioni ci gettavano in una poesia cosmopolita, la stessa da per tutto, e senza colore nazionale.

Oggidì che tutte le sorgenti del bello sono state successivamente scandagliate, e disseccate, non resta che ritornare alle fonti primiere, o all’eterna natura.

A ciò lo studio delle poesie slave, e specialmente de’ canti popolari e nazionali Jugoslavi può meravigliosamente ajutare.

Stranieri ai tipi di convenzioni delle accademie, questi canti, che non sanno nè di classicismo, nè di romanticismo, che non sanno essere che naturali, questi canti, io diceva, interverranno fra le muse occidentali nella stessa maniera che la razza slava interviene fra le altre razze, cioè come mediatrice d’ un movimento febbrile, e d’ una agitazione malta, preludio della decadenza, che il genio slavo ha per missione d’ impedire in Europa.

Ora che gli Slavi, questo popolo glorioso, si elevano all’ orizzonte, è utilissimo di conoscere la loro storia, e di domandare al passato il segreto dell’ avvenire.

Senonchè disgraziatamente egli avviene de’ popoli come degl’ individui. Il mondo non se ne occupa se non quando si sono alzati.

In Francia, non v’ ha guari, il Signor Roberto Cyprien con assai zelo e talento, avea richiamato costantemente 1’ attenzione sugli Jugoslavi, presso i quali almeno la storia e la poesia si tengono così stretti, che basta leggere i loro canti nazionali per sapere tutto che hanno amato, tutto quello che hanno odiato, tutto quello che hanno sofferto.

I loro annali sono altrettante canzoni, ed è perciò che non ve ne furono mai di più popolari, e di più durevoli.

Quest’ è un carattere particolare degli Slavi, e più pronunziato presso i Jugoslavi che presso i Greci e gli Spagnuoli. Cantare è un bisogno prepotente per essi, è la sola espressione delle loro speranze, de’ loro timori e delle loro passioni. L’ Jugoslavo infatti non ha che delle canzoni. Non v’ ha casa in Serbia, per quanto povera sia, in cui non si trovi la gusla, per accompagnare ed animare il cantore. Il calogero, nel fondo del suo monastero, recita qualche pia leggenda, facendo seguire ogni verso col lamentevole suono della gusla; il pastore, perduto nelle foreste e montagne, celebra pure le gesta degli Hajduki, e degli eroi del tempo passato. Le femmine alla fontana, i vendemmiatori al tempo della raccolta, il soldato reduce dalla guerra, tutti improvvisarono delle canzoni, che non sono spoglie nè di grazia, nè di semplicità, e, e pure manca tra essi un poeta, tutti ripetono le ballate tradizionali, ch’ essi appresero dalla loro madre, e che ridiranno un giorno i loro figli. Gli è un’inclinazione questa che tuttora esiste come due secoli fa. Quando i croati seguivano l’illustre loro Bano Jelačić, contro i loro vecchi alleati , gli ungheresi, per incitarli egli faceva suonar l’aria delle sue canzoni; e se l’ultimo principe (Vescovo e Vladika) del Montenero ha lasciato presso il suo popolo un ricordo profondo, e’destava pe’suoi canti 1’ ammirazione e l’invidia di tutti i suoi. Egli era il più abile bersagliere e il poeta più perfetto del Montenero. Nessuno sapeva come lui forare con una palla una noce gittata in aria, e nessuno ha celebrato con più patriottismo e calore il coraggio dei suoi Iontenerifli nel Gorski Vijenac, i cui canti vivranno tanto tempo come 1’ odio de’ Turchi e 1’ amore della libertà.

I canti del popoio jugoslavo possono dividersi in erotici (ženshe pjesme), e in eroici (junačke pjesme).

Gli erotici sono più antichi degli eroici, perchè ve n’ha forse di mille anni fa; mentre degli eroici non v’ ha, a detta anche di Vuk Stefanović, di più antichi di Kosovo e dei Nemanić.

Quanto concerne alle poesie eroiche, noi le dividiamo in quattro periodi.

Nel primo periodo cadono quelle poesie, che il Vuk al principio del II.° Libro ha annotato. Queste poesie sanno molto di paganesimo, e sono nella maggior parte di contenuto mitologico; in esse domina la fantasia, e vi si canta molto delle forze della natura, che gli antichi popoli per ogni dove deificano.

Presso ogni nazione si constata un simile processo. La poesia fu ne’suoi primordi presso tutt’ i popoli sacra, ieratica, intenta a sciogliere con forme e figure 1’ enigma della natura, i rapporti dell’ uomo colla divinità, la quale per il popolo puro, vergine, idillico si manifesta nei vari fenomeni della natura. Da ciò si spiega la tinta religiosa, che ha la poesia d’ogni popoio ne’ suoi prin. cipi. Questa poesia segue il limite fra i due stadi sociali d’ una nazione, ta lo stato cioè rozzo, selvatico, avvolto nelle tenebre del mito, e fra lo stato cavalleresco, pieno a’ ardite imprese, che precede il periodo storico.

Per le condizioni politiche eccezionali, il popolo jugoslavo non ha ben marcata questa differenza. Dall’ epoca mitologica esso passò co’ suoi canti all’ epoca storica, da questa alla cavalleresca, romantica , incarnata in Kraljević Marko.

Il secondo periodo arriva ai tempi d’oro, che i Serbi vissero sotto il governo de’ loro Zari (dal secolo X1I-XIV).

Passiamo in rassegna con un colpo d’ occhio la storia di questi due punti culminanti, attorno i quali si aggirano tanti canti popolari e nazionali; punti ai quali fanno eco i dolori, le speranze del giorno d’ oggi di questa nobile, ma infelice nazione.

Due sono i cardini, sui quali si aggirano tutte le canzoni di questo tempo, cioè quello dell’ illustre stirpe, che si spense con Stefano Dušan (1345), e 1’ altro è quella tragica catastrofe, che successe nel campo di Kosovo (1389), dove perì Lazzaro, e con lui tutto l’Impero Serbo.

Allo scorcio del secolo XIV surse, fra i Nemanić, Stefano Dušan, chiamato silni, il forte. Egli vi ascese il trono per una rivolta sacrilega con un parricidio, e vi si mantenne con meraviglioso splendore. Regnò sulla Serbia, Bosnia, Bulgaria, Dalmazia, Albania, e sopra una parte della Transilvania. Allevato a Costantinopoli, egli vi ha portato da questa città il gusto del lusso, e le pompose abitudini del palazzo imperiale. E’ vi tenne una corte, delle guardie, prese il titolo di zar, e, in un ardore di dominazione, giungeva fino a sognare la conquista di Bisanzio.

La morte lo arrestò ne’ suoi progetti. Egli è stato il più potente sovrano della dinastia de’ Nemanić. Ne fu 1’ ultimo.

L’ ambizione, da cui si lasciò acciecare questo potente monarca, e le terribili conseguenze di essa ha espresso a vivi colori il simpatico poeta Preradović nel seguente canto, che noi diamo tradotto.

Lo Zar Dusciano.

Lo Zar Dusciano di mezza notte
Della sua tomba le sbarre rotte,
Un dì dal funebre lenzuol si svolve;
Da sè si scuote la mortal polve,
E in lui lo spirto forte si desta,
Al bel paese volge la testa,
Onde formavansi le sue contrade,
Misura fiumi, campagne e strade;
Com’ era prima tutto e’ trovò,
Nulla nel vasto regno mutò!
Duscian s’ allegra; potente amore
Gli si ridesta cli vita in cuore,
E a sè chiamata la sua sorella
Vila, un dì cara, sì le favella:
Senti, mia Vila, suora amorosa,
Non ha il mio core più pace e posa!
Di nuovo ardente di vita i’ sono,
Io voglio ascender il mio bel trono!
Mostra, ten priego, quello ch’ è mio;
Ciò che del vasto regno svanio.
L’ ode la Vila; per man lo attira,
Ed alla tomba òon lui si aggira.
Poscia gli dice: “ Fratello amato,
Abbiam tuo vasto regno girato!
Il resto vedi tutt’ è svanito,
Allor lo Zar Duscian stupito,
Nella sua tomba dal duol discende,
Nè più di vita desio 1’ accende.

Dopo la sua morte i principali signori di quel paese, obbliando i diritti ereditari di Uroš, giovinetto figlio del loro sovrano, si disputavano il potere supremo.

Tre di loro emersero in questa lotta ambiziosa: Vukasino Mernjavčević, Lazzaro Grebljanović, e Boisavo Vojnović. Vukasino posto avea la residenza a Pristina, e governava tutt’ i luoghi circostanti, nominando despota suo fratello Uglješa, e ponendolo al comando di Drama, Sereza, e delle terre circonvicine fino a Salonicchio; Lazzaro reggeva la Mačva e il Sirmio, e Boisano Vojnović 1’ Ercegovina.

Tutti e tre, malgrado la loro astiosa rivalità, si riunirono frattanto, per soccorrere i Greci, minacciati dalle orde musulmane. I due primi caddero sul campo di battaglia, e Lazzaro prese liberamente possesso deI trono di Serbia, essendo stato Uros figlio di Dušan, qualche anno prima assassinato da Vukasino, e con lui estinta la gloriosa dinastia dei Nemanić, che per due secoli resse la Serbia con tanto valore.

Ma Ammuratte, avendo terminate le sue conquiste in Grecia, s’ avanzò sulle rive del Danubio, ed. intimò ai Serbi di riconoscere il suo potere.

Lazzaro, troppo fiero per discendere, senza resistenza, dalla sua dignità di re, ad un vergognoso vassallaggio, diò cli piglio alle armi, ed invocò 1’ appoggio de’ suoi vicini. L’ Ungheria, per un cieco calcolo d’ egoismo, 1’ Austria, per una malaugurata indifferenza, non gli vennero punto in soccorso. La Serbia, la Bulgaria, e 1’ Albania risposero sole al suo appello, e gli diedero un’ armata, con la quale s’ avanzò risolutamente all’incontro del vincitore della Tracia, del Sultano di Adrianopoli. Per la sua bravura, per la confidenza, che egli inspirara ne’ suoi soldati, forse avrebbe potuto riportare la vittoria. Ma una fatale collisione ed odio fra due de’ suoi valorosi generali, Vuk Branković, e Miloš Obilić, vieppiù aizzati da quello delle loro donne, furono la causa della sua perdita.

Vuk, che avea fatto un patto segreto col Turco, cominciò calunniare Miloš, ed accusarlo di mene proditorie. Gli credette Lazzaro, ed imbandita lauta cena, alla quale convitato aveva il fiore dell’aristocrazia serba, brindò alla salute di Milo, tacciandolo di traditore.

Miloš se ne sentì forte offeso e, alzatosi dal desco, gli rispose: domani vedrete, o Sire, ove sia fedeltà o infedeltà; l’infedeltà vi stà da canto.

Spuntato il mattino, Miloš co’ suoi due prodi compagni Milano Toplica, ed Ivan Kosančić si portò al campo turco e, posate le armi a terra, in segno di arrendersi, gli riescì di penetrare nel padiglione del Sultano, e facendo sembiante di baciargli rispettosamente la mano, trasse il suo coltello e lo immerse nel ventre del Sultano con tanta forza che ne uscirono le interiora.

Così periva Ammuratte, il terribile institutore de’ giannizzeri, il vincitore di trentanove battaglie.

Senonchè quest’ atto di audacia e di devozione, al quale e’ sacrificò la sua vita; non ebbe nel combattimento delle due armate il félice risultato che se ne attendeva. Miloš, massacrati molti ottomani, veniva legato e spento crudelmente coi due suoi valorosi compagni.

Incominciò infrattanto la pugna. L’ ala, con cui il solo re oprava, mostravasi più che mai gagliarda. Ma i soldati, comandati da lui, sorpresi di non vederlo alla loro testa, e turbati da vaghi rumori d’ un tradimento, resistettero fiaccamente all’ attacco de’ Turchi. Al momento, in cui Lazzaro rianimava il loro coraggio, al momento decisivo della battaglia, l’ala, di 12,000 uomini, comandata da Vuk Branković, si dava ad una fuga vergognosa, seguendo il suo comandante, che dava di sprone al cavallo, per sottrarsi alla pugna, e così infamemente tradiva. Lazzaro riesciva frattanto a mantenere ancora in buon ordine il resto delle truppe; ma essendogli stato ucciso il cavallo, egli cadeva. L’ armata perduta di vista il suo duce, s’ immaginò ch’ egli fosse perito o fuggito, e cominciò a sbandarsi.

Lazzaro, apparendo agli occhi dell’ armata sopra un altro cavallo, cominciò a gridare, e a far animo ai soldati, perchè ritornassero alla pugna; ma invano e’ tentò di riordinarli, essi erano in fuga. Bentosto si trovò solo, o quasi solo, tentando di lottare ancora, risoluto a morire piuttosto che seguire i suoi soldati nella loro fuga.

Era una lotta impossibile, ed e’ vi peri; vi perirono con esso il prode vecchio Jug Bogdan, e i nove suoi bravi e valorosi figli.

In Serbia vive ancora santa la memoria di Lazzaro.

Si vuole che i Serbi abbiano sottratto il di lui corpo, e che Miliza, la misera ed amorosissima moglie, 1’ abbia composto in lenzuolo da lei ricamato in oro.

A questi tien dietro il terzo periodo, che potrebbe appellarsi periodo di poesia romantica. In questo non si prende la storia della nazione per oggetto principale della poesia, ma soltanto qualche idea nazionale si appalesa nella persona di singoli eroi. Vi si cantano le gesta, 1’ amore, e le lotte, che sostennero i Serbi coi Turchi loro signori, e alla testa di tutti Kraljevié Marco, qual modello di eroismo nazionale.

Kraljević Marco era figlio di Vukasino. Non volendo riconoscere Lazzaro per reggente, si unì col Turco, e in ogni impresa con la sua gente lo soccorse. Benchè vassallo de’ Turchi, cionondimeno dir si potrebbe ch’egli non ha dimenticato la sua nazione, e quest’ è forse il motivo, per cui la poesia nazionale ha rivolto su lui particolare attenzione, e lo esalta con tante canzoni.

All’ eroismo di Kraljević Marco stanno da una parte le canzoni, che cantano della vita e del consorzio domestico, fra cui in particolar modo è degno di menzione il poema sulle nozze di Massimo Cernoević con la iiglia del Doge di Venezia, ch’ è una pittura fedele della Zeta, il presente principato di Montenegro, e del carattere de’ suoi abitanti, e dall’ altra parte si canta delle prepotenze de’ Turchi Agà nella Bosnia ed Ercegovina, in cui si celebrano le gesta dei Jakšić come eroi. L’ orizzonte di tutte queste gesta eroiche si estende dalla Bosnia tutto fino al Primorje (litorale), ove si distingue anche il prode Ive Senjanin, intorno a cui si aggirano molte canzoni.

Il quarto periodo delle canzoni eroiche si riferisce ai tempi recenti; è del tutto storico. Vi si cantano da una parte le gesta de’ Serbi sotto il Vojvoda Miloš, e dall’altra le pugne de’ Montenerini coi Turchi.

Senonchè fra il secondo ed il terzo periodo, cioè il periodo di Lazzaro e quello di Marco Kraljević, vi si rimarca tosto una grande differenza, che si spiega naturalmente per le disparità delle due epoche, che questi periodi o cic’i rappresentano. L’ una è la personificazione del tempo di regalità, di libertà nazionale, di nobili feste, e di gloriosi combattimenti; 1’ altro è quello di un tempo di servitù, di aggressioni parziali, e di decadenza; Nell’ una è la vita di un popolo umile e fermo , che riporta a Dio il trionfo delle sue armi, s’ inchina pietosamente dinanzi a Lui ne’ giorni di prosperità, e lo invoca con fervore ne’ suoi pericoli. Nell’ altro 1’ agitazione febbrile, le violenze impotenti dell’ oppresso, che si ribella contro un’ odiosa dominazione, poi ricade fremendo sotto il giogo, ch’ egli non ha potuto spezzare. Lazzaro ha le abitudini eleganti d’ un uomo di grande casa, la dignità di un re, il carattere religioso e cavalleresco d’ un Goffredo di Buglione. I poeti della Serbia amano dotarlo di tutte le qualità che piacciono al popolo serbo. Egli è bello e bravo, allegro e religioso; correndo con lo stesso ardore alle feste ed ai combattimenti, impiegando i suoi tesori a fabbricare chiese e a fondar monasteri, Marco è talvolta sensuale e brutale, sempre generoso e compassionevole, pronto alla collera, e nella sua collera si lascia talvolta trasportare fino all’ atrocità.

Quando Lazzaro vuoi celebrare una festa, si asside alla vasta mensa sotto il dorato soffitto del suo palazzo, presso d’una femmina venerata, coi suoi fratelli d’armi, che s’ intrattengono gravemente clegl’interessi del paese, coi vecchiardi che cercano un consiglio ne’ libri sacri. Marco al contrario entra nella taverna, e non è modesta colazione che lo satisfaccia. Gli bastano appena per soddisfare il suo appetito ordinario de’ castrati e de’ bigonci di vino. Con la sua mano di ferro egli prende un otre, che non contiene meno cli dodici boccali di vino , ne beve d’un tratto una metà, e ne dà I’ altra al cavallo. Era uso a cioncarne tanto, che, come dice un canto serbo, nel tempo di un anno di fermata di Marco a Costantinopoli, il vino venne meno in quella grande città.

Lazzaro difende la libertà della sua nazione, fra mezzo de’ suoi amici, sotto la bandiera di Cristo, e il popolo lo santifica; Marco, proscritto, errante, va d’ avventura in avventura, durante trecento anni, per rappresentare con questa vita di tre secoli il servaggio, gli sforzi di coraggio, gli atti di vendetta, e la rassegnazione della Serbia.

I poeti togliendo a questo tipo della loro èra sfortunata, la dolce, casta, ideale fisonomia degli eroi di una età precedente, gli hanno dato per compensazione la potenza fisica del colosso. Sulle sue spalle veggonsi la pelliccia di lupo, e in capo pure berretto di lupo; alla sua cintura è sospesa una sciabola, come quella che fabbricava Wieland il magico artista scandinavo, una sciabola, che taglia a mezzo l’incudine del fabbro Novak; all’arcione della sua sella è attaccata una clava (Buzdovan), come quella d’ un Ercole. Il suo cavallo pezzato, il suo fedele Šarac, con cui egli divide la sua inebriante bevanda, combatte pel suo padrone cogli occhi, co’ piedi, e co’ denti, è intrepido e infaticabile, come l’illustre Bajardo de’quattro figli d’Aymont.

Salito sui suo cavallo, Marco si precipita all’ assalto de’ suoi nemici, mette in rotta interi squadroni, come que’ quattro favolosi figli del principe delle Ardenne, di cui le tradizioni popolari hanno, dal tempo di Carlo Magno, propagato le meravigliose imprese.

Secondo i poeti, Marco avrebbe vissuto 300 anni, e sarebbe quindi morto circa il principio del secolo XVIII; appunto all’epoca, in cui gli Slavi del Danubio perdettero 1’ ultimo vestigio della loro indipendenza.

Marco è quindi la personificazione di tutte le passioni della sua nazione nel senso esteso della parola. Iracondo, inesorabile, fiero, fa appello in ogni contesa alla sua poderosa clava (buzdovan). Se talvolta eccede, se è brutalmente crudele, lo è per vendicare con questa crudeltà altri diritti conculcati. In continua lotta con sè, con quanto lo circonda, è la personificazione dello stato violento del suo popolo, oppresso sotto il giogo turco. Ammazza, ma riconosce tosto di aver fatto male; se ne pente, ed istituisce legati per le fondazioni pìe, onde ottenerne perdono. Egli non ruba, non fa violenza alle donne; protegge e difende i deboli contro gli oppressori; è il genio del bene, che va di paese in paese scuotendo, ani mando, e tenendo desto il sentimento nazionale del suo popolo, è l’Ercole, e il Teseo dei jugoslavi. Pei jugoslavi l’eroe Kraljević non è morto; ma a guisa del Barbarossa, e del Guglielmo Tell delle leggende germaniche, egli dorme in una caverna aspettando il giorno segnato dai decreti del Cielo.

Secondo la traduzione popolare, il Kraljević ha confitto la sciabola sotto una roccia della caverna; gli sta vicino il suo Sarac, e presso v’ è del muschio. La sciabola gli uscirebbe poco a poco dalla roccia, e si dice che, quando il suo fedele corsiero avrà finito di mangiare il muschio, e la sciabola gli sarà uscita tutta dalla roccia 1’ eroe Kraljević riapparirà nel mondo.

Diamo su questo proposito tradotto un brano del dramma di Marco Kraljević, del nostro celebre poeta Preradović.

Lo spirito illirico.

La nostra terra sotto il col fulgente
Bella si serba ancor; ma sulla terra
Nella polve serpeggia il popol nostro.
Le nostre genti, quai formiche, al suolo
Piegar la fronte e con ambe le mani
Si allacciaro alla terra, un largo pianto
Versandole nel seno, ed invocando
Da lei pietade, poichè in essa dorme
Kraljević Marco. Col suo lungo sonno
La nostra addormentò stirpe guerriera.
Finchè Marco non surga, il poderoso
Suo brando non impugni, e in groppa assiso
Al pezzato destrier, l’addormentata
Terra non scuota dai profondo sonno,
Non sorgerà, nè le pupille al cielo
Alzerà questo popolo. La gloria,
Nostra madre, perciò dal suo sepolcro
Alzandomi, dicea: “Ritorna, o figlio,
Nell’ aperto sepolcro e nell’ oblio!
Ma se di vita hai tu vaghezza, a Marco
Tu la vita ridona. I fanciulletti
Sognan di Marco ne’ racconti il cieco,
Ne’ canti il Bardo ne rimembra ognora
G1’ immortali trionfi e la speranza
Da secoli ne’ secoli n’ echeggia.
Io promisi a mia madre: ella mi disse
Grande potenza a grande opra si chiede!
E tu la vera troverai potenza
Nella concordia!”

V’ è palese, o Vile,

Da mia madre il desio, forte sostegno
Nel cimento mi siate arduo, e raggiunta
Sarà la meta.

Offriamo da ultimo la traduzione di un canto nazionale dell’illustre poeta Signor G. Sundecić su questa credenza nazionale.

Credenza Nazionale.

Sul monte altissimo
In fondo speco
Nel duro silice
Tre pile veggonsi.
E sopra pendervi
Il nudo acciar
Di Marco Kraljević
Da lui stillar
A goccia, a goccia
Vedesi sangue
Sangue guerrier;
Finor s’ empiêr
Più di due pile,
E una metà
Colma si fa
Dell’ altra pila
Del sangue eroico;
E quando 1’ ultima
Piena sarà,
Il nostro Kraljević
Si desterà
E dall’ avello
Sorgerà bello
Co’ suoi tre fervidi
Cuori possenti,
Da leon fiero
Nel sen guerriero.

Gittiamo uno sguardo alle canzoni liriche popolari e nazionali, ossia alle canzoni di sentimento.

Quanto havvi di nobile sentire umano, quanto v’ ha di valente, di bello ideale nella società umana, tutto ciò noi sentiamo nei gentili versi de’ nostri canti popolari e nazionali.

Da essi noi rileviamo qual sia pel sentimento nazionale il vero nome, quanto cari sieno il padre e la madre, quale 1’ amore del fratello e della sorella, quale sia la gratitudine, quali le ineffabili dolcezze della famiglia.

Ne’ canti eroici (Junacke Pjesme) ci sì dimostra il guerreggiare continuo del nostro popolo contro il nemico della croce e della nazione, ci si dimostra 1’ azione esterna con larga forma epica.

I canti muliebri erotici (ženske Pjesme) ci snudano 1’ anima e il cuore della nazione, dimostrano il suo più delicato sentimento su tutti gli avvenimenti della vita. Questi brevi canti, con la loro forma sono pieni di eleganza, di sentimento, di naturale semplicità, ed offrono una leggiadra, intera e poetica pittura. V’ ha in esse delle minute gemme della peesia, ed un esperto pittore potrebbe trovarvi una sorgente inesauribile nel suo lavoro artistico.

Quanto santa cosa sia la madre ai figli, ce lo accenna in forma mirabile un bellissimo paragone, che dice assai di più di quello dir lo potrebbero opere grandi. Lo sposo novelio va per la sua fidanzata; si accommiata da sua madre, e pregandola a volergli dare la materna benedizione, la chiama dolce mammina, candida chiesuola.

Quanto non dice questo bellissimo paragone!

Come una bianca chiesuola sopra un alto colle veduta da lungi, sporge in alto verso il residuo orizzonte, come un rifugio e conforto al nostro cuore, così al figlio risplende la madre, come il più grande tesoro, come il bene più caro di questo mondo.

Pertanto 1’ idea del più grande amore, l’idea del più grande sacrifizio, senza il menomo egoismo, 1’ idea della beneficenza, che tutto dà, e niente chiede per in concambio, 1’ idea d’ ogni benedizione il popolo jugoslavo congiunge al nome della madre.

Il jugoslavo, che ha eziandio il più fine ingegno ne’ più delicati rapporti della vita morale, seppe ne’ suoi proverbi rinvenire un’ opportuna, conveniente ed estetica forma, questo popolo non poteva più leggiadramente significare il valore materno di quello che lo spiegò nel proverbio: Majku i bog ima. anche Dio ha la madre; proverbio preziosissimo che portato ad un’ altezza sì sublime, viene irradiato dalla fiamma del Cristianesimo.

Dall’ altra parte risponde a questi proverbi un altro, attestando che quanto è dolce al nostro popolo il caro nome della madre, altrettanto è terribile il nome della matrigna. Con questo nome si congiunge di consueto 1’ idea della donna cattiva, ed un proverbio dice: matrigna cattivo conforto. Nel bel canto la Beata Vergine nell’inferno, fra i più grandi peccatori, troviamo anche la matrigna di due fanciulli, che parla:

“Per madre in Dio mi presero i fanciulli,
E quand’ essi tornarono dal giuoco,
Entrambi diero in un dirotto pianto:
Il più vecchio piangendo mi dicea:
Tagliami, o madre, una camicia bianca,
A lui la misurai sul vivo sasso.
Il più giovin dicea: dammi del pane;
Di nera terra un pezzettin gli diedi”. —

In questo canto il nostro popolo ha messo tutto 1’ odio del nome di matrigna, ed essa non è quindi accetta al cospetto divino.

La differenza fra la madre e la matrigna viene splendidamente dimostrata anche dal bellissimo canto popolare Boemo, ch’ è stato messo in musica, e che offriamo da noi tradotto:

L’ ORFANO.

Canto Popolare boemo.

Orfano sconsolato ancor piccino
Rimase un faciullino:
Quando un raggio alla mente gli spuntò,
Di sua madre cercò:
“Dolce mio padre, il fanciullin s’ udia,
Dov’ è la mamma mia?” —
“La tua mamma nel sonno immersa sta,
Nessun la desterà,
Non lontano da quì tua madre giace,
Nel campo della pace!” —
E corse il fanciullin nei cimitero,
Onde saper s’ è vero.
Con le piccole dita e con la spilla
Dissotterrò I’ argilla;
Ma quando venne della fossa al fondo,
Egli piangea profondo!
“Parlami, o mamma, o dolce mia mammina,
Solo una parolina!” —
“I’ non posso parlar, fanciullo mio;
La terra mi coprio;
E un sasso immane, come fiamma, il petto
Mi brucia, o mio diletto!
Vattene, o bel fanciullo, i’ non son più,
Un’ altra mamma hai tu!,, —
“Ma ella cara non è, come tu sei
Stata pegli occhi miei.
Se dee frangermi il pan, tre volta pria
Mel niega, o mamma mia.
Ma quando, o cara, tu me lo frangevi,
Di miele me 1’ ungevi!
Quand’ ella acconcia la mia chioma, il viso
Veggo di sangue intriso!
Ma se tu 1’ acconciavi, oh sì d’ amore
Tu mi stringevi al cuore!
Quando i piedi mi lava, ognor molesta
I piedi ella mi pesta!
Ma se i piccoli pie’ tu mi lavavi,
Ah tu me li baciavi!
E quando la camicia essa in’ imbianca,
Mi maledice stanca!
Ma se tu la lavavi, allegro canto
Tu mi scioglievi accanto!” —
“Vattene a casa, fanciullo mio,
Ti raccomanda a Dio!
E se con te la mamma tua vorrai
A me venir potrai!” —
Tornò a casa il fanciullo, e giù tenea
La testa e sì dicea:
“Venditi un bove, o padre mio diletto,
Comprami un cataletto.
E con quel soldo mi farai domane
Suonare le campane,
Dirmi 1’ esequie ei approntar la fossa,
Che mi ricopra 1’ ossa”. —
“Mio dolce fauciullin, che mai faresti?
Forse morir vorresti?,, —
“O padre mio, deh! lasciami con Dio,
La mamma mia vegg’ io!
Padre, non sai? la mamma mia verrà,
Seco mi piglierà!” —
“O fanciullo, t’ accheta! eh! via che fai?
La mamma tua non hai.
Tua mamma imputridì nel cimitero,
Credi, o fanciullo, è vero
Qui non c’ è alcun: fantasimi tu miri,
O caro, tu deliri!,, —
“Le lenzuola del mio letto traete
E tosto m’ avvolgete.
M’arde la testa come fiamma; ell’ è
Finita oggi per me!
A Dio lo spirto, ed alla mamma mia
Il corpicel ne sia;
Alla mia mamma il corpicel che il cuore
Le palpiti d’ amore”.
Infermo un giorno, e 1’ altro al ciel muovea,
Nel terzo esequie avea!

I canti serbi non sono la proprietà esclusiva del piccolo principato, di cui la capitale è Belgrado, ma è una ghirlanda campestre, è il romancero, è 1’ Iliade di tutt’ i popoli jugoslavi, ossia de’ Dalmati, Sloveni, Croati, Bosnesi, Ercegovesi, Montenerini, ed anche de’ Bulgari.

I poveri Raja delle finitime provincie amano ad ascoltare queste strofe armoniose al loro focolare solitario. Il marinajo dalmata le ripete sul suo naviglio, e il montenerino le canta con orgoglio fra le sue rupi.

I canti jugoslavi non rassomigliano alle poesie degli altri popoli dell’ Europa. Nelle canzoni d’amore non si trova punto l’accento erotico de’ Greci, e de’Latini, nè la raffinatezza di galanteria de’ Bertrand francesi, nè la mistica meditazione del Minnesinger Germanici, nè le gioviali tenerezze degli antichi poeti inglesi, ma qualche volta la dolce e cordiale melanconia de’ Folkvisor della Svezia e della Danimarca.

Nelle poesie, che riferiscono le avventurose intraprese de’ Serbi, si narrano le battaglie, e celebransi le loro vittorie, ma non si trovano quelle immagini fantastiche, che, nelle tradizioni di altri popoli, si mescolano di sovente alle immagini della vita reale, e trovansi ogni istante nella fervente religiosità del Medio Evo.

Del terrore superstizioso, che le procelle del cielo, le calamità della terra hanno inspirato all’ infanzia de’ Serbi, come a quella di tutti gli altri Jugoslavi, eglino hanno serbato un vestigio della loro mitologia , ma quest’ultimo vestigio è stato cristianizzato. In generale pei Jugoslavi, non v’ha più di divinità favolose, che governano gli elementi. Gli è Sant’Elia, che tiene fra le sue mani la folgore, San Pantaleone, che dispone dell’uragano, San Nicolò, che regge i mari. Alla Vergine stessa, in una pia confidenza, i Serbi hanno attribuito la dignità reale del fuoco, quell’elemento spaventevole fra tutti, giacchè la Vergine è per essi, come per tutti quelli, che sono rimasti fedeli al suo culto , una protettrice generosa, una madre compassionevole. Una delle loro schiette leggende la rappresentano interceditrice per essi, col sentimento della loro miseria, presso de’ Santi meno indulgenti, che vogliono punirli d’una infrazione della legge. Questa leggenda ha per titolo: La messe della Domenica. Benedetto sia il Signore, lodato sia Iddio.

“La Domenica i cristiani fanno la loro raccolta, ed ecco tre nubi accumularsi sulle loro teste. L’una cli queste nubi porta Elia con la folgore, l’altra Maria col fuoco, la terza porta S. Pantaleone. Questo santo dice ad Elia: Scaglia il tuo fulmine, e a Maria slancia il tuo fuoco, io scatenerà il vento della procella. No, esclama Maria, non islanciate la folgore, non scatenate il fuoco, giacchè i cristiani non ponno fidarsi dei Turchi, e lasciare la loro messe sui campi”.

Nelle opere popolari delle razze latine, germaniche, ed anglosassoni, gli è facile di riconoscere frequentemente, sotto forme diverse del linguaggio un fondo comune d’ idee simboliche, d’ ìnvenzioni romanzesche, e di superstizioni. Ben prima della nostra èra d’universale locomozione , i popoli aveano l’uno con l’altro assai rapporti per poter scambiare fra essi i tesori della loro imaginazione dal nord al sud, dal sud al nord, i racconti miracolosi, le novelle cavalleresche camminavano si spandevano di contrada in contrada, come i granelli delle piante, che il vento trasporta sulle sue ali, e semina in diversi luoghi.

La Serbia e in generale gli Jugoslavi non hanno partecipato a quest’opere dell’Europa, e non ne hanno punto subito 1’ influenza. Fra le acque del Danubio, e fra i fiotti dell’Adriatico, essi hanno vissuto separatamente sotto le loro vecchie foreste di quercie. Essi non sonosi avvicinati all’occidente che per qualche relazione con Venezia, e coll’Ungheria.

Gli Jugoslavi, per la loro posizione, avreb bero potuto opporre una diga salutare all’espandersi delle armate mulsumane, ma le potenze cristiane, che 1’ islamismo dovea spaventare nelle lor capitali, non hanno compresa 1’ importanza di questa situazione. Esse hanno veduto la Serbia grandeggiare, fortiflcarsi, senza stringere con essa alleanza, e l’hanno veduta impegnarsi nella mortale lotta contro i Turchi senza darsi alcun pensiero di difenderla, senza sentir l’obbligo di vendicarla. La Serbia, vassalla di Costantinopoli, ma vassalla non sommessa, restò egualmente al di fuori de’costumi dell’Impero Greco, di cui essa non subiva l’autorità, che fremendo, e la sua poesia s’è appena impregnata dal soffio dell’Oriente.

In questa poesia gli è curioso il veder riflettere, come in uno specchio, lo spirito, i costumi , le passioni, e le virtù d’una razza considerevole , che ha avuto esistenza nazionale, e che l’ha perduta, e tende a riconquistarla.

I sentimenti di famiglia occupano un grande posto ne’ canti Jugoslavi. La religione e la politica ottomana era tutt’intenta di schiacciare l’infedele, che condanna la sua fede alla servitù, di mantènerlo nell’obbedienza con la forza, e col terrore, traendo quanto denaro potevano con ogni maniera di estorsione. Nulla che rassomigli ad un’ amministrazione, ad un governo, ma con un dispotismo brutale, senza intelligenza, che secca tutto quello che tocca, e porta da per tutto l’obbrobrio, la miseria, e la disperazione.

Da ciò per i vinti una posizione tutta particolare, e che diede agli Slavi della Turchia una fisionomia distinta. Condannato ai livelli più pesanti, minacciato nella sua persona e ne’ suoi figli, il Serbo s’ è ritirato dalle città, ove l’attendeva la violenza, 1’ ingiuria e, s’egli resiste, gli stanno aperte prigioni terribili, ove, seguendo i canti popolari, l’acqua ascende fino ai ginocchi, i serpenti s’ incrociano, ove gli ammassi d’ossame umano giungono fino alle spalle; ed è perciò fuggito nelle montagne. Là, framezzo a foreste inaccessibili, egli ha posta la sua dimora; isolato nel deserto, egli cerca quella libertà, che gli si toglie; è là ch’egli attende l’oppressore. Così s’è fatto una divisione della popolazione. Nel mentre gli antichi abitanti hanno abbandonato le città, i conquistatori vi si sono in qualche modo trincerati. Temendo alla lor volta la solitudine ch’eglino si hanno procurato, e la disperazione di un nemico, hanno lasciata la compagna ai vinti e, soddisfatti di tiranni balzelli, li hanno abbandonati, non prendendo troppa cura del modo, con cui si amministrerebbe questa miserabile comunità.

Senz’alcuno di que’ legami, che stabiliscono fra gli uomini la vita politica, la difesa comune del paese, il commercio, lo studio, non resta al Serbo che la sua famiglia. Essa è la sua felicità, essa la sua gioia, essa il solo suo amore. Felice quello che ha un vecchio padre, una madre, che lo amano, molti fratelli, e sorelle; quest’è la sola ricchezza, la sola potenza! Restare presso i suoi, morire nelle lor braccia è il solo bene degno d’ invidia!

Quest’amore della famiglia è così vivo ed ardente, che non si riscontra negli altri popoli civili dell’Europa. La fidanzata lascia i suoi fratelli con un rincrescimento, che non ha nulla d’affettato, le lagrime cadono da’ suoi occhi come i granelli, che cadono da un grappolo troppo maturo. Si troverà egli mai in una famiglia straniera la tenerezza de’ suoi fratelli, le gioie della casa paterna Il marito, tutto circondato da una madre, che non l’ha mai lasciato, dalle sorelle, che l’hanno sempre teneramente amato, che si disputarono la sua amicizia, da’ fratelli, che dividono senza posa i propri pericoli, e le proprie pene, avrà egli per la sua donna un amore non condiviso? Dimenticherà egli per essa le affezioni della sua infanzia? No, in Serbia l’amore fraterno la vince sulla tenerezza della sposa, e per così dire la madre, e la sorella sono sempre più amate, e più devote che la moglie.

I serbi, ed in generale gli Jugoslavi nelle loro leggende, nelle loro strofe liriche, hanno sparso i loro sogni religiosi, le loro ridenti e melanconiche espressioni. Che non si domandi chi ha ritmato queste stanze, modulati questi versi nell’ idioma jugoslavo, il più melodioso, e il più musicale di tutt’i dialetti Slavi, dice l’illustre Mickievicz. Nessun erudito lo può precisamente sapere. L’opera individuale si smarrisce in questo insieme di accenti popolari come il suono particolare di uno strumento nell’armonia generale d’un’orchestra. Esse formano fra loro come una catena di fiori, che debb’essere conservata nella sua interezza. Quelli, che le hanno fatte, non hanno studiato nelle scuole, e le regole d’arte ch’essi hanno seguito, non sono state apprese, ma eglino le trovarono per istinto. La loro poesia è un grido, che scappa dalla loro anima commossa, rispettato da quelli, che l’ascoltarono, come se fossero stati ì primi a proferirlo. È una musica, di cui ignorasi l’origine, e che sentesi risuonare d’ogni parte come il mormorio de’ boschi, e il sospiro de’ruscelli.

Abbiamo abbozzato questi cenni sui canti della gloriosa nazione Jugoslava, la quale può esclamare come Uhland nell’espansione della sua natura poetica: Mio Dio, ti ringrazio: tu mi hai dato dei canti per tutte le mie gioie, dei canti per tutt’ i miei dolori.

A questi lunghi inni di dolore, succedono al presente degli altri inni, animati da un pensiero di speranza. I Raja delle antiche provincie di Serbia, gli Slavi del Danubio, della Bosnia, Ercegovina, e i Montenerini, che la spada degli ottomani non ha potuto soggiogare, hanno veduto indebolirsi la forza di quest’ Impero, sotto il quale gli uni non hanno curvata la testa che gemendo, contro il quale gli altri non hanno cessato di lottare, e balzano al ricordo dei loro passato, e sognano una nuova esistenza.

Verrà un giorno, e questo giorno non è forse lontano, in cui il dispotismo musulmano scomparirà da questi luoghi, come l’ultima goccia d’acqua d’un torrente sparisce nello spazio che aveva usurpato (1).

Non è d’oggidì solamente che si è colpiti dell’originalità delle poesie jugoslave.

Herder ha cercato nella raccolta incompleta del francescano P. Andrea Kačić i materiali del primo volume de’ suoi Volkslieder, e Goethe, avendo trovato nel viaggio del Signor Fortis in Dalmazia, pubblicato nel 1774, il canto conosciuto sotto il nome ballata della nobile sposa di Asan-Aga, non isdegnava di tradurlo con be’versi. Ma i testi mancavano, e lasciavasi scomparire con le generazioni questi canti popolari, come si ha lasciato perdere i più antichi romanzi; quando un Serbo, Vuk. Stefanović, che ha fatto più di qualsiasi altro patriotta per la lingua e letteratura nazionale, ebbe la felice idea di raccorre e pubblicare queste canzoni tradizionali.

L’Europa letterata, troppo ignorante della lingua jugoslava, non intese l’importanza di tale pubblicazione, se non grazie alla rimarchevole traduzione di Talvi, pseudonimo, sotto il quale si nascondeva Madamigella Jakobs, oggi maritata a Nuova York col dott. Edoardo Robinson, molto conosciuto per le sue Ricerche bibliche in Palestina.

Ma Talvi non le aveva tutte tradotte, e Vuk e i suoi amici rinvennero assai tesori nelle foreste della Serbia, e delle altre contrade jugoslave, e frattanto un altro letterato il signor Siegfried Kapper pubblicò una traduzione de’ canti popolari Jugoslavi (Lipsia, 1852), lavoro fatto con buon gusto, con amore, e che rende un grati servigio a quelli, che non possono comprendere l’originale.

In Inghilterra ed in Francia si fecero conoscere mediante la Germania le poesie Jugoslave.

Talvi è stato tradotto a Londra dal Sig. Browning, e a Parigi da Madama Voïart, ma presso gl’ Inglesi si seguì con maggior cura ed interesse che presso i Francesi lo sviluppo de’popoli Slavi.

Talvi rimasto fedele a’ suoi primi studi, ha pubblicato a Nuova York, nel 1850, in inglese Sguardo storico delle lingue e letterature slave, con un saggio sulle loro poesie popolari.

Più recentemente nel 1865 Adamo Mickievicz pubblicò la terza edizione delle lezioni sulla letteratura de’ popoli slavi, di cui quella parte, che riguarda gli Slavi meridionali, venne tradotta in italiano dall’ illustre poeta di Ragusa Orsatto conte Pozza sotto il titolo: Àdam Mickievicz; de’ canti popolari illirici,

Nel 1836, il celeberrinio scrittore dalmata Nicolò Tommaseo pubblicava in prosa i canti illirici nella sua bella collezione de’canti popolari (Venezia, 1839).

Più tardi il signor Dozon vice console francese a Mostar, traduceva con molto talento dagli originali le poesie popolari serbe, che venivano poi tradotte da Browning nella lingua inglese.

Un poeta serbo della Bosnia, il signor Simeone Milutinović, avea pubblicato a Lipsia nel 1837 i C’anti popolari de’Montenerini, e dei Serbi nell’ Ercegovina la qual raccolta completa la pubblicazione più antica del signor Celakovsky Canti popolari di tutte le tribù slave (Praga, 1822-27).

Salì in molta celebrità il signor Roberto Cyprien, specialmente pel suo studio sulla Poesia slava nel decimottavo secolo (l.° Aprile 1854).

Il Signor Giov. de Rubertis volgarizzò in bei versi delle gentili poesie de’chiarissimi poeti nazionali slavi conte Pozza,e Giov. Sundecić, nonchè alquanti canti popolari slavi (Caserta, 1869).

Da ultimo il signor Ferdinando de Pellegrini pubblicò egli pure una bella traduzione di alquanti canti popolari slavi.

(1) veggasi : Le Monde Slave di ROBERTO CYPRIEN. Paris, 1852;

Lettres sur l’Adriatique et e le Montenero. Bruxe1les, 1852;

Contessa DORA D’ISTRIA, Revue des deux Mondes, traduzione del Nazionale (1865)

Edoardo Laboulaye. Paris, 1853;

Lezioini sulla letteratura de’popoli Slavi di ADAMO MICKIEVICZ. Parigi, 1749.

Le quali opere ci furono di sussidio.

 

Canti del popolo Slavo tradotti in versi italiani con illustrazioni sulla letteratura e sui costumi slavi per Giacomo Chiudina, Volume Primo, Firenze, Coi Tipi di M. Cellini e C. alla Galileiana, 1878, pp. 6-56.

На Растку објављено: 2008-06-02
Датум последње измене: 2008-06-02 22:40:32
 

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