Andrea Ceccherelli

Leopardi e l'Ottocento slavo

Reciprocità di sguardi e diversità di volti

Nella Repubblica delle Lettere ottocentesca Italia e Paesi slavi occupano una posizione analoga pur nelle diversità, si collocano cioè al margine di quei grandi movimenti di arte e di pensiero che hanno oramai in Germania e in Francia i loro centri propulsori, assorbendone e rielaborandone in modo originale gli impulsi – siano essi illuministici o romantici, positivisti o decadenti. Tale situazione rende i contatti culturali italo-slavi forse più diradati e mediati rispetto ad altre epoche, ma non esclude i legami reciproci, che, sebbene a fasi alterne, sussistono per lo più ininterrotti, concretandosi talvolta, anche in letteratura, in episodi tutt'altro che irrilevanti o marginali. Anche i rapporti di Leopardi con l'Ottocento slavo, osservati qui di seguito in una duplice prospettiva (Leopardi guarda al mondo slavo, il mondo slavo guarda a Leopardi), non mancano di riservare qualche piccola sorpresa e sbocchi letterari di una certa importanza.

1. I Paesi slavi nell'opera di Leopardi

L'interesse che Leopardi manifesta nei confronti dei Paesi slavi non è paragonabile – è quasi superfluo dirlo – a quello da lui nutrito verso Paesi quali Francia o Germania, per i motivi cui accennavo sopra. La via che conduce da margine a margine passa per il centro: come accade sovente in tutto l'Ottocento, anche per Leopardi sono proprio i suddetti Paesi a porsi come mediatori, a fare da ponte verso le culture slave.

Alla luce dello Zibaldone si vede come tale interesse, per quanto non preminente e di natura piuttosto occasionale, fosse tuttavia vivo. In prevalenza si trattava di questioni linguistiche, inerenti l'origine, l'evoluzione e lo stato attuale delle lingue slave, nonché il loro rapporto col latino e col francese[1], ma non mancano, accanto a quelle linguistiche, le notazioni culturali[2]: le considerazioni sulla Russia "civiltà mezzana" rispetto all'Europa (2332-33)[3] e "mezzo barbara" (4261) non sono poi così distanti dalle premesse dalle quali muoveva, pressappoco in quegli anni, l'analisi culturologica e storiosofica di un Čaadaev.

Più di una pagina dello Zibaldone è dedicata a Vuk Karadžić, che suscita l'attenzione di Leopardi non tanto come lessicografo e grammatico, quanto soprattutto come collettore ed editore di quei canti popolari serbi ("serviani") che varie traduzioni e notevolissima fortuna ebbero negli ambienti culturali dell'epoca, rivelando territori sino a quel momento tenuti per letterariamente vergini. Leopardi segue le vicende della raccolta dalla stampa francese[4], ma probabilmente non ne verrà mai in possesso. Così come non verrà mai in possesso – presumibilmente – del Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, opera del barone russo Aleksandr Kazimirovič Meyendorff, della quale pure trovò un resoconto sul periodico francese "Journal des Savants" (4399-4400). Conoscenze queste – sia quella di Karadžić, sia quella di Meyendorff – ugualmente indirette e ugualmente superficiali, eppure foriere di esiti quanto mai diversi per l'opera del Recanatese.

Siamo nello stesso ambito di fascinazione romantica per la poesia dei popoli primitivi, poesia "d'immaginazione" nella quale si potevano ritrovare, come confermavano Karadžić e Meyendorff[5], sia l'ispirazione epico-eroica che quella lirica. E sul conto dei canti serbi, accostati non a caso ad Omero e ad Ossian, Leopardi apprende che, a differenza delle "chansons féminines" (cosiddette perché composte e cantate da donne "all'opre femminili intente"), le quali "sont faites sans art [et...] sont généralement médiocres sous le rapport de la poésie" (4338), nelle canzoni eroiche dedicate a battaglie e aventi come protagonista prediletto il leggendario Marko Kraljević, "quelquefois les aventures qu'elles chantent ont de l'intérêt" (4339). Tuttavia il motivo principale del suo interesse per la poesia popolare non risiede nell'epica. Poiché infatti, al presente "le nazioni non hanno eroi [...] il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico [...] è quasi impossibile alle letterature moderne. [...] Da queste osservazioni risulterebbe che dei tre generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni fosse il lirico" (4475-4476).

Più dei canti serbi, allora, doveva colpire Leopardi l'usanza dei kirghisi, i quali "passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes des airs qui ne le sont pas moins" (4400), giacché rafforzava la sua convinzione che quello lirico fosse l'unico genere veramente eterno e universale, "proprio d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia" (4234). Dall'osservazione di Meyendorff, che Leopardi annota nel suo "magazzeno" di pensieri alla data 3 ottobre 1828, trae ispirazione, com'è noto, il Canto notturno d'un pastore errante dell'Asia[6], a conferma che, in siffatta natura contemplativa – come rileva Cesare Galimberti – "il fatto biografico può coincidere con una solitaria avventura della mente o ridursi all'avvenimento di un'invenzione poetica, di una pubblicazione, di una lettura"[7], perfino indiretta.

Da un'ispirazione realizzata ad una rimasta allo stato di progetto. Fra i "disegni letterari" vi è l'abbozzo di una vita di Tadeusz Kościuszko[8], generale polacco, combattente per la libertà polacca e americana, morto nel 1817. Il progetto, che risalirebbe al 1819-20, si colloca temporalmente fra le due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante e la canzone Ad Angelo Mai, e anche idealmente si ricollega a quelle "tre sorelle patriottiche", secondo la definizione del Carducci. La vita di Kościuszko, da realizzarsi sul modello della tacitiana Vita di Agricola, avrebbe dovuto rinnovare gli accenti di accorata polemica contro la decadenza civile presente, con un ribaltamento del procedimento di antitesi alla base di All'Italia: lì al soggetto – la sventura della "formosissima donna" Italia abbandonata in catene dai propri figli pugnanti "in estranie contrade" – fa da contrappunto l'amor patrio dei soldati greci alle Termopili; qui, al contrario, il soggetto sarà l'amor patrio di Kościuszko e dei Polacchi, al quale si contrapporrà il "raffreddamento dell'amor patrio" e "l'egoismo" degli Italiani.

Sebbene un tale progetto lasciasse trasparire (pur nella prospettiva precipuamente italocentrica[9]) un certo slancio del patriottismo leopardiano oltre i confini nazionali, e sebbene contenesse in potenza un possibile avvicinamento al patriottismo romantico europeo fondato sulla solidarietà fra i popoli oppressi, il suo abbandono fece sì che Leopardi rimanesse ancorato a modelli antichi e alfieriani, il che lo portò, giusta Piero Treves, ad identificare "la libertà con la teoria dell'odio nazionale anzi che con la romantica e liberale religione delle patrie"[10], nella quale persino Manzoni e Mazzini convengono. È semmai degno di nota che l’exemplum atto ad illustrare e amplificare la tesi dell'italiano "secol morto" chiami in causa, fra i casi contemporanei, proprio la Polonia, precoce testimonianza di un topos – la "somiglianza che hanno le sventure della Polonia con quelle d'Italia" – che si va formando, e che godrà di particolare fortuna nell'epoca delle lotte risorgimentali.

Vi è infine un altro episodio nel quale l'elemento slavo ha una qualche parte. In entrambe le canzoni patriottiche del '18 si fa menzione delle sorti degli Italiani che parteciparono alla disastrosa campagna di Russia di Napoleone. Lo scopo del poeta era quello di denunciare l'assurdo destino di chi deve morire non per la patria ma per il suo oppressore, nella fattispecie gallico: all'ambientazione in terra slava spettava dunque un ruolo unicamente circostanziale, e di per sé non rilevante. La rilevanza gli fu data più tardi dagli Slavi stessi, ai quali non restò indifferente tale ambientazione. Questo ci offre l'occasione per invertire la prospettiva ed occuparci di Leopardi visto dai Paesi slavi[11].

2. Leopardi nei Paesi slavi: dal tirtaismo al pessimismo[12]

Correva l'anno 1849 quando Orsato Pozza, patrizio raguseo molto addentro alle cose italiane[13], pubblicò su "Danica Ilirska", organo dell'illirismo fondato da Ljudevit Gaj, alcune poesie di Leopardi tradotte da sé medesimo, fra le quali All'Italia e Sopra il monumento di Dante; queste ultime non per intero, ma estrapolandone i brani riguardanti la suddetta campagna del 1812, riuniti sotto l'unico titolo di Vojska talianska pod Napoleonom (L'armata italiana sotto Napoleone). L'arbitrio del traduttore non è immotivato, ma si spiega nel contesto politico. Siamo al tempo della repressione dei moti libertari e indipendentisti italiani, e sappiamo che il nerbo dell'esercito al comando di Radetzky era costituito proprio da slavi del sud, da Croati. Dunque il collage di Pozza mira, come si intuisce, ad un adattamento attualizzante del motivo leopardiano "moriam per quella gente che t'uccide", e le sorti degli italiani in guerra contro un nemico che non è il loro, un nemico slavo, dovevano costituire, in un drammatico gioco di specchi, un monito ai Croati che combattevano, agli ordini dei loro oppressori, proprio contro l'Italia; "l'Italia – dice in termini espliciti Pozza – che in quest'epoca tanta offesa e violenza soffre dalle braccia nostre, e probabilmente non a vantaggio nostro"[14].

Questo caso, apparentemente singolare[15], si inserisce in una tendenza che è comune a tutti i Paesi slavi ai quali giunge l'opera del Recanatese: in Croazia, così come in Russia e in Polonia sono soprattutto le canzoni patriottiche e civili a destare l'interesse iniziale dei traduttori e della critica, anche dopo l'indipendenza italiana, allorché il poeta assurge a dolente ma fermo profeta di una rinascita finalmente avvenuta, dagli slavi ancora auspicata. Tirtaico è dunque il volto del primo Leopardi slavo. In particolare, la canzone All'Italia – come osserva Maver – "è stata ovunque sentita come il canto patriottico dei popoli oppressi. Il suo motivo principale, il contrasto cioè tra la gloria dei padri e la schiavitù dei nipoti, non soltanto non ne ha ostacolato la grande diffusione presso le nazioni gementi sotto gioghi stranieri, ma ne è stato forse il motivo principale: poiché nei giorni di prostrazione tutti i popoli amano raffigurarsi il proprio passato 'carico di lauri e ferro'"[16].

Occorre tener presente che la ricezione di Leopardi nei Paesi slavi ha inizialmente un carattere molto parziale. Affidata esclusivamente alla stampa periodica, essa è fortemente condizionata dalle intenzioni del traduttore, che può agevolmente imprimerle una direzione selezionando, riducendo e attualizzando il messaggio originale. Il primo ampio saggio monografico su Leopardi in terra slava vede la luce nel 1880, per la penna del ceco Vrchlický. Quanto a edizioni in volume delle opere, lo stesso Vrchlický pubblica i Canti in ceco nel 1876 (Bàsně Giacomo Leopardiho), ma altrove occorrerà attendere la fine degli anni '80, se non addirittura il Novecento avanzato. Un pieno riconoscimento del valore del pessimismo leopardiano avverrà, pertanto, solo a partire dagli anni '80 e '90, quando la conoscenza di Leopardi acquista contorni più definiti: in Russia – dove fra il 1888 e il 1908 escono ben tre edizioni di Canti e non si trascura neppure la prosa –, così come in Polonia – dove nel 1887 esce un'ampia antologia di Pisma wierszem i prozą (Scritti in versi e prosa) curata da Edward Porębowicz -, "il culmine della fortuna del poeta recanatese si registra nell'ultimo quarto del secolo"[17].

Il Leopardi tirtaico si ridimensiona per far posto al pessimista. Su questo processo incidono non poco i mutamenti culturali in atto in tutta Europa, ove si assiste ad uno svigorimento e ad una trasformazione del patriottismo romantico nella misura in cui prevale la décadence. "Cosa è rimasto a noi che tutto sappiamo, Per i quali nessuna delle vecchie fedi più non basta" – si chiede sconsolato il poeta polacco Tetmajer. Col passaggio dagli ideali collettivi all'individualismo, dall'ottimismo storiosofico al pessimismo cosmico, dal-l'artista-patriota romantico all'artista maledetto incompreso dalla società, anche nella ricezione del Nostro si verifica gradualmente uno spostamento di accenti: Leopardi serve sempre meno a scopi civili e nazionali, e sempre più è preso a modello di grandezza isolata[18]. Ciò che gli attira i riguardi dei lettori slavi è ora la sua lucida consapevolezza dell'infelicità umana e del dolore cosmico: il 1 giugno del 1887 il giovane Stefan Żeromski imprime il motto, tratt.o da A se stesso, Jedna niezawodna twemu plemieniu – śmierć ("Al gener nostro il fato non donò che il morire"), in testa al nuovo volume dei suoi Diari.

Il recupero di aspetti del suo pensiero in precedenza sottaciuti non avviene però senza resistenze, in particolare nella regione slavo-balcanica, dove, pur moltiplicandosi le traduzioni a partire dagli anni '80, non vedono la luce volumi leopardiani. Nel primo significativo saggio su Leopardi in croato, opera di Milivoj Šrepel e risalente al 1891 [19], – dice Maver – "al di fuori dei luoghi comuni, vi è soltanto una tendenza chiara, o meglio una preoccupazione, quella di presentare il pessimismo leopardiano come una manifestazione strettamente personale di fronte alla quale non ha ragion d'essere il quesito intorno al valore o disvalore della sua concezione poetica e filosofica della vita e del mondo, ma occorre soltanto, con molta compassione, difendersi dai pericoli che tale concezione può in sé contenere"[20]. Ma lo stesso Vrchlický in Boemia, pur traducendo tutto il Leopardi maggiore, negli interventi critici è molto prudente, si preoccupa degli effetti pedagogici ("Non bisogna dare Leopardi alle masse"[21]) e preferisce sottolineare gli aspetti positivi del suo messaggio: "Il pessimismo grandioso delle sue idee [...], l'acerbità della satira e soprattutto la forma difficile e all'orecchio dei Cechi alquanto insolita non troveranno facile adito all'animo di tutti; ma il suo amore ardente per la povera patria, il suo indomito entusiasmo per la risurrezione della gloria antica degli avi, l'amarezza e lo sdegno contro la decadenza e la miseria, la debolezza e la demoralizzazione dei contemporanei [...] devono conquistargli subito il cuore di tutti"[22].

Non di rado l'aspetto patriottico, anziché essere abbandonato, riesce a conciliarsi con l'altro polo dell'interpretazione ottocentesca di Leopardi. Il suo primo grande interprete croato, Ante Tresić Pavičić, traduce non soltanto l'Ultimo canto di Saffo, Consalvo, Il canto notturno e Il coro di morti nello studio di Federico Ruysch, ma anche All'Italia e Nelle nozze della sorella Paolina. E il già citato Stefan Żeromski, forse il più attento lettore di Leopardi in Polonia a fine Ottocento, uno dei pochi capaci di comprendere profondamente il suo pessimismo cosmico senza cedere alla tentazione di addomesticarlo con tranquillizzanti considerazioni sulla sua "vita strozzata", confessa: "Dall'abisso della sua quieta disperazione emergono però delle potenze in cui credo da tempo: l'amor di patria, l'amore come certezza fisiologico-psichica e 'il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera'"[23].

Nella lettura di Żeromski aspetto patriottico e pessimistico non si trovano dunque in contraddizione, bensì sono complementari. Lo saranno, qualche decennio più tardi, anche per Stanisław Brzozowski; ma Brzozowski andrà ancora più avanti, ben oltre il tirtaismo romantico: nel riconoscere una funzione civile alla poesia di Leopardi, la individuerà non nella capacità di accendere sentimenti patriottici, bensì nella sua carica demistificatoria, nello smascheramento delle illusioni dei contemporanei, e per questa sua "protesta" verrà accostato a Wyspiański24. Siamo ormai alle soglie del Novecento.

Ricapitolando, si delineano così i tre periodi della ricezione di Leopardi nei paesi slavi nel secolo scorso: se in vita del poeta e nel decennio successivo alla sua morte la sua opera rimane pressoché priva di echi[25], dopo il 1848 fino agli anni ’70 a prevalere è l'aspetto patriottico e tirtaico della sua poesia[26]; successivamente, fra gli anni '80 e l'inizio del nuovo secolo, nel periodo di maggior fama di Leopardi, l'accento viene posto sul pessimismo. Il "Leopardi poeta dell'idillio" rimane invece maggiormente nell'ombra. Un processo di ricezione maturo si ha, nell'Ottocento, soltanto in Russia e Polonia. Nei Balcani, come detto, si dovrà attendere a lungo prima di vedere una raccolta di scritti di Leopardi, mentre in Boemia la sua fortuna appare limitata ad un solo nome, quello di Jaroslav Vrchlický, che detiene il monopolio di traduzioni e interventi critici sul poeta italiano[27].

Detto questo, sorge però inevitabile la domanda se la lettura di Leopardi sia stata tanto interiorizzata dagli scrittori slavi da divenire materia di ispirazione, se incise cioè sulla dinamica culturale dell'epoca e se destò echi originali nelle letterature di arrivo. Si può abbozzare brevemente una risposta, sia pur sommaria, sulla base delle analisi (necessariamente parziali) fornite dai singoli studi citati (ad essi si rimanda per approfondimenti), dalle quali risulta che tracce visibili di una "influenza" di Leopardi nelle letterature slave sarebbero cominciate con gli ultimi decenni del secolo.

Per la Russia occorre sottolineare il numero e il valore dei poeti – da Pleščeev a Gumilëv passando per i simbolisti (Merežkovskij, V. Ivanov, Bal'mont) – che si cimentano nella traduzione di Canti leopardiani nei decenni a cavallo del Novecento, fino ad arrivare alle relativamente recenti versioni della Achmatova; invece gli indizi di un'influenza di Leopardi sulla letteratura sono, allo stato attuale delle conoscenze, "numerosi ma sparpagliati [e...] attendono riscontri più precisi"[28]. Per gli Slavi del Sud il poeta più noto per il quale si è parlato di influenza leopardiana è Ante Tresić Pavičić, mentre su Vrchlický Maver sostiene che non vi fu influenza se non superficiale e presto abbandonata: questo a causa delle assai marcate differenze di carattere fra l'Italiano e il Boemo, anteponente l'azione alla contemplazione e l'ottimismo della volontà al pessimismo della ragione[29].

In Polonia, infine, il prestigio di cui gode l'opera di Leopardi a cavallo fra Otto e Novecento è molto elevato, poiché gli è universalmente riconosciuto un ruolo di rilievo nella genesi dell'importante fenomeno del pessimismo fin de siècle: "L'apparizione dei primi testi della formazione modernista fu segnata da una ripresa del problema di un giudizio negativo sul mondo, quasi ex novo, sebbene si rifacessero agli stessi patroni spirituali: Schopenhauer, Hartmann, i poeti Giacomo Leopardi e Louise Ackermann"[30]. L'attualità del pensiero leopardiano determina così fenomeni di "influenza", di particolare interesse soprattutto nell'opera di Kazimierz Przerwa Tetmajer e di Stefan Żeromski.

La seconda serie di Poezje (1894) di Tetmajer fa da spartiacque fra due epoche letterarie, "Positivismo" e "Giovane Polonia", e non soltanto convenzionalmente – per gli storici della letteratura –, bensì nella coscienza degli stessi protagonisti, che la considerarono la prima compiuta manifestazione artistica della nuova generazione. In essa è stato possibile riconoscere significativi echi e reminiscenze leopardiane[31], confortate anche da quanto affermato dallo stesso poeta: "In poesia sono piuttosto un autodidatta che un discepolo di questa o quella scuola poetica. Ciò che ha esercitato un'influenza su di me, sono il Condor di Leconte de Lisle e il rassegnato pessimismo di Leopardi"[32]. Ciò determina un notevole avanzamento di posizione dell'Italiano in un ipotetico canone dei "padri" del modernismo polacco, elevandone la funzione da semplice oggetto di conoscenza e veicolo di concetti a vera e propria fonte di ispirazione letteraria. E fonte di ispirazione letteraria Leopardi fu anche per Żeromski, le cui profonde e tormentate impressioni di lettura sono annotate nei già citati Diari: quelle stesse impressioni, anche a distanza di molti anni, si riflettono sulla sua produzione narrativa, realizzandosi in una serie di personaggi rimandanti in vario modo a un archetipo leopardiano.

Quando si parla di "influenze" ci si trova nelle parti alte dei territori della ricezione: l'aria si fa più rarefatta, le forme si perdono nelle nebbie, il percorso diviene incerto e irto di difficoltà. Ma chiunque scrive, prima di essere autore di un testo, è stato lettore di altri testi, ovvero, per dirla con Leopardi stesso, "la lettura per l'arte dello scrivere è come l'esperienza per l'arte di viver nel mondo" (Zib., 222), e non si può non tenerne conto. Le comode passeggiate nelle pianure disseminate di traduzioni e interventi critici dovrebbero costituire una necessaria ricognizione propedeutica prima di sollevare lo sguardo lassù, poiché è a quelle altezze, al postutto, che si decide la vera entità della "fortuna" di un autore presso un'altra cultura. Così concludo questa mia breve rassegna, compiuta necessariamente a volo d'uccello, nello sforzo di astrarre dalle diversità contingenti e occasionali per rintracciare i tratti comuni, le convergenze profonde in un processo molto esteso nello spazio e nel tempo; compiuta altresì senza alcuna ambizione al ruolo di sistemazione prevaricatrice, con l'unico scopo di ricondurre le linee frante della ricezione slava di Leopardi entro un unico, possibile, orizzonte comune, e senza sottrarsi ai rischi insiti in ogni generalizzazione.

  1. Le menzioni slave di tipo linguistico nello Zibaldone si trovano alle pagine seguenti: 241 (vestigia del latino in Polonia e in Russia); 933 (processo di differenziazione della lingua slava); 981 (lingua russa figlia dell'Illirica); 1034 (uso della lingua latina in Polonia); 1271 (alfabeto russo derivante, come altri, da un solo alfabeto primitivo); 1298 (lingua illirica madre della russa, della polacca, e di altre); 1895 (non crede si possa ancora considerare come formata, e fornita di una letteratura propria, la lingua russa); 2097-2100 (la lingua russa e la polacca, continuando ad essere coltivate, usciranno dal grado in cui sono, di pure immagini della lingua e letteratura francese); 2623 (i Russi scrivono in francese); 3967 (gli Sciti spettano alla razza slava); 4172-73 (etimologia della parola Sarmata secondo S. Ciampi); 4373 (Goulianof egittologo russo, sostenitore di una lingua universale originaria); 4378 (Cirillo e Metodio inventori dell'alfabeto "schiavone" o "cirilliano" e della liturgia slava).
  2. Di scarso o anche nullo interesse sono altre menzioni, alle pagine: 1044 (differenza tra un soldato inglese e uno russo nell'ambito delle riflessioni su natura meridionale e natura settentrionale, al qual proposito a p. 1027 è menzionata anche Pietroburgo: "che climi!"); 3210 (Polonia); 3368 (l'italiano in Dalmazia); 3349 e 3865 (Fratelli Moravi – loro repubblichette in Boemia); 3646 (come si vivrebbe in Russia senza il fuoco?).
  3. I brani citati nel testo tratti dallo Zibaldone sono accompagnati in parentesi dal numero della pagina.
  4. Karadžić e la letteratura serba sono menzionati alle pagine 4337-4339,4361,4372 e 4399 e 4452.
  5. Anche i kirghisi infatti hanno "des chants historiques (non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros" (4399).
  6. Fra i Disegni letterari (in G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, vol. I, Firenze, Sansoni, 1969), nel gruppo dei "Carmi lirici del genere dei Sepolcri" (p. 372) risalente probabilmente ancora al soggiorno fiorentino del 1828, è menzionato un Canto notturno di un pastore dell'Asia centrale alla luna, per il quale Leopardi rimanda alle pagine 4399-4400 del suo Zibaldone. Il disegno, e dunque la prima ispirazione, dové essere contemporaneo all'apprendimento dell'usanza kirghisa. Il carme fu composto un anno dopo, fra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830.
  7. C. Galimberti, Leopardi Giacomo, in Dizionario critico della letteratura italiana, vol. II, Torino, UTET, 1986, p. 570.
  8. Elogio o Vita del General Polacco Cosciusco (Disegni letterari, cit.,p. 367). L'intento era quello di concorrere per un premio bandito dall'Accademia di Varsavia.
  9. Kościuszko è "uomo illustre per vero ed efficace amor patrio" e "mi duole che un tal uomo non sia mio compatriota" sarà uno dei pensieri da esprimere.
  10. P. Treves, Giacomo Leopardi, in Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli 1962, p. 505 nota.
  11. Altre menzioni di contenuto variamente slavo in cui mi è capitato di imbattermi sfogliando il succitato I vol. di Tutte le opere del Nostro: Copernico è protagonista frequente, si pensi solo alla Storia dell'astronomia e al Dialogo che porta il suo nome, e compare anche nello Zibaldone, dove però è detto tedesco: "Egli è, giusta la graziosa espressione di Fontenelle e di Algarotti, quell'ardimentoso prussiano [...]" (p. 672); l'italo-dalmata Ruggero Bosković compare fra le fonti della Storia dell'Astronomia; Jablonski in nota al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (p. 851), nel quale si trova menzionata anche la regina polacca Edvige (p. 841) per un aneddoto, tratto dalla vita di lei scritta dal Surio, che ne mostra il terrore dei tuoni; dalle lettere di Leopardi risulta la sua conoscenza con il conte russo Sergej Murav'ev Apostol', di cui raccomandò per la pubblicazione all'editore Stella di Milano (let tera ad A.F. Stella datata Firenze 29 marzo 1831) il Viaggio in Tauride, "opera che in verità io credo buona" (p. 1357; altre menzioni del medesimo alle pp. 1356,1358,1361,1371,1389, 1395), nonché un'intenzione risalente al suo primo viaggio a Roma, segretamente coltivata e rivelata al fratello Carlo, "di farmi portar via da qualche forestiere o inglese o tedesco o russo [...poiché] le incette di letterati italiani ancora durano [...e] so che alcuni de' nostri sono stati invitati da Italinski ministro di Russia e da altri simili, a trasferirsi e stabilirsi ne' loro paesi con emolumenti" (p. 1144).
  12. Per questa parte mi baso principalmente sui seguenti articoli: G. Maver, Leopardi e Vrchlický, "Rivista Italiana di Praga" 1929 (d'ora in avanti Maver1); Id., Leopardi presso i Croati e i Serbi, Roma, Istituto per l'Europa orientale, 1929 (d'ora in avanti Maver2); A. Ceccherelli, Giacomo Leopardi e la "Giovane Polonia" (Della presenza e degli usi), in La Polonia, il Piemonte e l'Italia. Omaggio a Marina Bersano Begey Atti del Convegno "Marina Bersano Begey, intellettuale piemontese e polonista" Torino, 12 dicembre 1994, a cura di Krystyna Jaworska, Torino, Edizioni dell'Orso, 1998, pp.193-218; Id., Aspetti comparati della ricezione di Leopardi nei paesi slavi (XIX sec.), in Polonia, Italia e Culture Slave: aspetti comparati tra storia e contemporaneità, Atti del Convegno dei Polonisti italiani in memoria di Bronislaw Biliński, Accademia Polacca di Roma, 11-12 dicembre 1996, a cura di Luigi Marinelli, Marcello Piacentini, Krzysztof Żaboklicki, pp. 148-.160; J. Ugniewska, La "ricezione" del Leopardi nell'Ottocento polacco, "La Rassegna della Letteratura Italiana", a. 89, n. 1, 1985, pp. 69-75; Ead., O Leopardim w Polsce, ultimo capitolo della monografia Giacomo Leopardi, Varsavia 1991, pp. 205-223; Ead., La fortuna di Giacomo Leopardi in Polonia dal decadentismo ai giorni nostri, "Romanica Vratislaviensa" LXI, 1996, pp. 417-424; D. Gelli Mureddu, Leopardi in Russia: traduzioni, interpretazioni e influenze, "Russica Romana" (vol. II) 1995, pp. 111-137. Da ricordare anche il volume Leopardi e l'Ottocento (Firenze, Olschki, 1970), sebbene i contributi slavistici ivi contenuti siano, nel migliore dei casi, oltremodo succinti, nonché i numeri di "Studi leopardiani" dedicati alla ricezione di Leopardi in Russia (n. 3, 1992), in Croazia (n. 5, 1993) e in Polonia, Boemia, e Slovacchia (n. 6, 1994). In questa occasione desidero ringraziare la dott.sa Lara Novelli, autrice di una bella tesi di laurea su Bednař traduttore di G. Leopardi in ceco, per l'amichevole gentilezza con la quale ha messo a mia disposizione i suoi materiali e la sua competenza.
  13. Pozza, che si firmava anche Medo (o Orsat) Pocić/Pucić/Pocić, aveva studiato a Venezia e a Padova, nel 1842-43 aveva collaborato con "La favilla" di Trieste (dove aveva pubblicato dei frammenti dei Dziady di Mickiewicz in italiano), e dal 1846 al 1848 aveva soggiornato alle corti di Lucca e Parma. Fu "propagandista culturale nel duplice senso della parola: degli Slavi in Italia e dell'Italia presso i Serbi e i Croati" (Maver2, p. 14).
  14. Cit. secondo Maver2, p. 20.
  15. Ma non unico: oltre mezzo secolo più tardi il poeta serbo di Mostar Aleksa Šantić compone una "libera interpretazione poetica" di All'Italia, e la Gelli Mureddu (Leopardi in Russia..., cit., p. 129) ne cita un rifacimento ad opera di Petr Vejnberg, intitolato Vengerskaja pesnja, in cui il poeta si rivolge al popolo magiaro esortandolo a battersi per la patria.
  16. Maver2, p. 19. Prosegue lo studioso: "Sarebbe certo un argomento interessante per uno studio speciale indagare la storia di questa funzione patriottica della canzone giovanile del Leopardi, contrapponendola magari ai canti patriottici di tipo bérangeriano che tanta eco ebbero anche nel mondo germanico e slavo" (pp. 19-20).
  17. Gelli Mureddu, Leopardi in Russia..., cit., p. 111.
  18. Giusta la Gelli, in Russia "se verso la metà dell'Ottocento Leopardi veniva inteso prevalentemente alla luce di All'Italia o Nelle nozze della sorella Paolina, nell'ultimo scorcio di secolo le chiavi di lettura della sua lirica divengono Bruto Minore e Ultimo canto di Saffo" (p. 122).
  19. Contenuto nel volume Pjesnički prvaci u prvoj polovini XIX vijeka, Zagabria 1891. Mladen Machiedo (La fortuna di Giacomo Leopardi nell'Ottocento Jugoslavo, in Leopardi e l'Ottocento, cit., p. 407) nega ad esso il primato fra gli interventi critici in terra "jugoslava", attribuendolo invece ad un articolo di M. Gattin pubblicato nel 1880 su "Obzor" di Zagabria.
  20. Maver2,p.35.
  21. J. Vrchlický, Per il centenario della nascita di Giacomo Leopardi, in Maver1, p. 39.
  22. Cit. secondo Maver1, p. 33.
  23. S. Żeromski, Dzienniki. II. 1886-87, Varsavia 1954, p. 284.
  24. Cfr. S. Brzozowski, Życie i śmierć w twórczości Stanisława Wyspianskiego, in Id., Współczesna powieść i krytyka, Cracovia-Breslavia 1984.
  25. Un'eccezione costituiscono naturalmente gli esuli, la cui conoscenza della cultura europea era ben più vasta e diretta. È nota l'ammirazione per Leopardi di Aleksandr Herzen, unico slavo a trovar posto nella rassegna (terminus ad quem approssimativo: 1848) di N. Bellucci su Giacomo Leopardi e i contemporanei: testimonianze dall'Italia e dall'Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996.
  26. La Gelli lo chiama "risorgimentale": "In sintonia con la scelta affermatasi nelle pri me traduzioni dei Canti, l'interpretazione leopardiana dominante per tutto il periodo degli anni '60-'80 continua ad essere quella 'risorgimentale'" (p. 118). È curioso, e molto istrutti vo se mai qualcuno ritenga che stiamo parlando di processi lontani e oramai avulsi dal no stro tempo, che questo aspetto ritorni incredibilmente attuale anche in periodi a noi molto più prossimi, in letture marchiate da una forte pressione ideologica. Due esempi: il primo riguarda un critico marxista polacco, Jan Zygmunt Jakubowski, che negli anni '60 di questo secolo definisce Leopardi "autore di liriche patriottico-rivoluzionarie" tout court (in S. Żeromski, Opowiadania, a cura di J.Z. Jakubowski, p. 275 nota); il secondo, ancorapiù interessante, si riferisce alla recente raccolta di Pjesme in croato ad opera di Frano Čale (Zagabria 1993). Nell'introduzione Čale spiega che uno dei principali motivi che lo hanno indotto all'impresa è stato quello "patriottico, essendo stato il traduttore profondamente colpito dalla straordinaria e particolare attualità che alcuni aspetti fondamentali dei versi del recanatese acquistavano per lui sin dall'inizio del martirio della Croazia democratica, [...] soprattutto [...] delle prime canzoni" (p. XI). Elenca quindi i versi sentiti come attuali, re spingendo recisamente eventuali obiezioni sul metodo: "Chi volesse rimproverarci di strumentalizzare un grande lirico a fini politici e di intavolare quindi un discorso extracritico, dovrà riconoscere che il Leopardi delle canzoni politiche ci autorizza a giudicare la loro efficacia poetica ricreandone l'attualità" (p. XII).
  27. Nella ricezione di Leopardi presso i Croati e i Serbi da un lato, e presso i Cechi dall'altro, si genera un paradosso ben spiegato da Maver: "La poesia, la cui traduzione è rimasta sconosciuta o dimenticata dai più, trova facilmente qualche volenteroso, disposto a ridarle, nella lingua propria una veste nuova. Il libro invece, rendendo minimo o annullando addirittura il bisogno di nuove traduzioni, toglie anche il desiderio di ritradurre poesie singole, o cicli, o tutta l'opera di un poeta straniero. Soltanto le grandi nazioni possono permettersi il lusso di possedere più d'una traduzione completa di poeti d'altra lingua". Così, mentre nelle terre slave del Sud si ha una serie quasi ininterrotta di traduzioni, in Boemia la versione di Vrchlický "segna non soltanto il principio ma anche la fine della fortuna del recanatese presso i Cechi", poiché "ha pienamente soddisfatto, anzi superato il bisogno culturale dei suoi connazionali", cosicché "incombe a lui, che è stato l'unico vero cultore del Leopardi in Boemia, buona parte della responsabilità per l'interesse così poco attivo che i Cechi hanno dimostrato successivamente per il grande poeta italiano" (Maver2, p. 8).
  28. Gelli Mureddu, Leopardi in Russia, cit., p. 128. La studiosa fa i nomi, a vario titolo di influenza (diretta o indiretta) e analogia, di G. Tlov, P. Vejnberg, I. Turgenev, E Tjutčev, E Dostoevskij, E. Baratynskij, M. Lermontov, A. Puškin, N. Ogarev, S. Nadson, N. Nekrasov, A. Blok.
  29. Da Maver dissente J. Bukaček, Ješte Vrchlický a Leopardi, "Listy filologické", 64 (1937), pp. 448-455, e Id., L'Italia e il romanticismo cecoslovacco, in Il Romanticismo (Atti del 6º Congresso dell'Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e letteratura Italiana), a cura di V. Branca e T. Kardos, Budapest 1968, p. 493).
  30. B. SzymaŃska, Spór o wartoÊci w epoce Młodej Polski, in Stulecie Młodej Polski, a cura di M. Podraza Kwiatkowska, Cracovia, Universitas, 1995, p. 14. Degno di nota è, nella Polonia di fine secolo, l'apprezzamento sempre espresso verso Leopardi anche da chi non ne condivideva le idee, pur avvertendone la profonda sincerità: "Il pessimismo di Leopardi non è la melanconia drappeggiata e un po' teatrale degli eroi di Byron [...] In Leopardi esso scaturisce dalla profondità di un'anima realmente addolorata e infelice" – riconosceva il giovane Tadeusz Miciński (T. MiciŃski, O pesymizmie, edito da T. Wróblewska, "Przegląd Humanistyczny" 1969, n. 5, pp. 142). Il critico Cezary Jellenta considerava Leopardi "il più profondo e il più sincero dei pessimisti. Nessuno fra i pensatori di professione regge il confronto con lui. In essi la ragione mente al sentimento, la teoria alla pratica", e denunciava la "meschinità" dell'uomo Schopenhauer e "i giochetti di prestigio" di Eduard von Hartmann (C. Jellenta, Wszechpoemat i najnowsze jego dzieje, Varsavia-Cracovia 1895, p. 287).
  31. Le ho analizzate nel mio articolo su Giacomo Leopardi e la "Giovane Polonia", cit., pp. 206-213.
  32. Lettera di K. Tetmajer a E Hoesick del 9 II 1895, cit. secondo K. Jabłońska, Kazimierz Tetmajer. Próba biografii, Cracovia 1969, p. 42.

Andrea Ceccherelli, Professore. Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne, Bologna
Atti del premio "Città di Monselice" per la traduzione letteraria e scientifica, Monselice.

На Растку објављено: 2008-02-12
Датум последње измене: 2008-02-11 22:09:43
 

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